Home Ricerca Vacca da latte: alimentazione e gas-serra

Vacca da latte: alimentazione e gas-serra

2206
0

Il contributo dei bovini da latte ai gas serra è imputabile fondamentalmente al metano da essi prodotto. In misura molto minore, però, anche al protossido d’azoto (N2O) che può liberarsi dal suolo a partire dall’azoto proteico dei reflui zootecnici e dei residui colturali in seguito a un processo iniziale di ossidazione (con formazione di nitrati, NO3) e di una successiva e incompleta riduzione (denitrificazione). Se la denitrificazione è completa si forma l’azoto molecolare (N2) che costituisce il 79% dell’aria e quindi è assolutamente innocuo, ma se non viene staccato anche l’ultimo atomo di ossigeno il gas emesso è il protossido (o monossido) d’azoto, potente gas a effetto serra: l’N2O vale 300 volte la CO2 come effetto serra in una scala temporale di 100 anni, quindi quantità anche piccole di questo gas non vanno sottovalutate ai fini del riscaldamento globale del pianeta.

Come ridurre le emissioni di protossido d’azoto?

1) Riducendo l’escrezione di azoto nei bovini: dal punto di vista alimentare ciò si realizza fondamentalmente con la tecnica Precision feeding, che consiste nel somministrare agli animali quanto necessitano in base al loro stato fisiologico e livello produttivo e nulla di più (tab. 1): un eccesso di proteine (e quindi di azoto) si tradurrebbe inevitabilmente in un’escrezione maggiore di N, con più ammoniaca nell’aria e azoto proteico nel suolo, da cui à rischio di emissioni di N2O dal suolo stesso. Attenzione perché nel rumine, e in quello della bovina in lattazione in particolare, si produce tanta proteina microbica (che poi fornirà a livello intestinale il 60% circa degli amminoacidi necessari all’animale) solo se c’è a disposizione dei microrganismi sufficiente energia: fibra ben digeribile (quindi poco lignificata!) e soprattutto carboidrati non fibrosi: amido e pectine. Questi ultimi infatti vengono degradati nel rumine nel giro di poche ore, a fronte di molte ore o addirittura giorni nel caso delle emicellulose e della cellulosa. Tanta fibra va bene quindi per una vacca a produzione medio/bassa, ma per una vacca da latte ad alta produzione ci vuole l’amido (24-28% s.s.). In questo modo anche un tenore proteico della dieta contenuto (15-16% s.s.) potrà fornire, tramite la proteina microbica, sufficienti amminoacidi all’animale.

2) Limitando le lavorazioni del terreno e la concimazione azotata: un eccesso di azoto al suolo, da fonte sia organica che minerale, unitamente a intense lavorazioni del suolo stesso, favoriscono la formazione e l’emissione di protossido d’azoto, per cui è bene contenere sia gli apporti azotati al suolo sia la frequenza e l’intensità delle lavorazioni del terreno.

Come ridurre le emissioni di metano?

A differenza dell’N2O, il metano (CH4) è prodotto ed emesso in larga misura direttamente dai ruminanti, bovine da latte in primis. Una bovina da 30 kg di latte al giorno emette circa 120 kg di CH4 all’anno: non è poco, ma non sono pochi neanche i 94.000 kg di latte che in un anno essa produce. La metanogenesi è il risultato di un adattamento, all’interno di un’evoluzione durata milioni di anni, dei ruminanti all’ambiente che li ha resi in grado di digerire la fibra e non esistono bacchette magiche per far sparire tale processo mantenendo al contempo la possibilità per l’animale di digerire le componenti fibrose vegetali. Di fatto la perdita di energia sotto forma di metano (mediamente il 6% dell’energia ingerita) è lo scotto da pagare per poter utilizzare ai fini nutritivi la fibra alimentare.

È bene ricordare che il metano, così come l’azoto, il fosforo e gli altri inquinanti ambientali, sono prodotti dall’animale anche se non è in fase produttiva: manzette, manze e vacche in asciutta producono metano ed eliminano N e P, ovviamente meno di una vacca in lattazione, ma solo perché mangiano meno. Il fatto che tutti gli animali, bovini da latte inclusi, mangino anzitutto per mantenersi e solo una volta soddisfatti i fabbisogni di mantenimento convertano ciò che mangiano in latte o carne, spiega perché gli animali ambientalmente meno impattanti per unità di prodotto (per kg di latte, per es.), siano quelli più produttivi, come si vede chiaramente dalla figura 1.

Tab. 1 – Caratteristiche nutritive delle razioni per bovini da latte (Crovetto, 2020)

Fig. 1 – Emissione di metano in vacche da latte a diverso livello produttivo.

Pertanto, il primo modo per ridurre le emissioni di metano per kg o per tonnellata di latte è quello di avere vacche più produttive ed efficienti, e i mangimi in tal senso sono un grande alleato dell’ambiente.

Migliorare i parametri riproduttivi e la longevità

Un anticipo dell’età al primo parto (per es. da 27 a 23 mesi) equivale a ridurre le emissioni di metano nella carriera dell’animale. Ma per ottenere ciò dobbiamo alimentare il giovane bestiame adeguatamente, perché raggiunga circa 380 kg a 14 mesi, quando avverrà la fecondazione. Questo significa che la giovane manza deve crescere mediamente circa 850 g/giorno e ciò richiede l’uso di razioni adeguate e in particolare di foraggi di buona qualità. Soprattutto i fieni e i fienisilo devono avere una fibra digeribile, costituendo la base della razione, mentre il silomais va razionato in quanto una quantità eccessiva farebbe ingrassare l’animale con effetti negativi sulla successiva carriera della lattifera.

Analogamente bisogna puntare ad avere un breve intervallo “parto-concepimento” per sfruttare al massimo i primi 5-6 mesi di lattazione, più produttivi dei successivi, nella carriera della bovina. Carriera che oggi si è orientati a far durare almeno 3 lattazioni in media, per ammortizzare al meglio, economicamente ma anche da un punto di vista di impatto ambientale, il costo di “produzione” della bovina: in poche parole i 2 anni circa che ci vogliono da quando la vitella nasce a quando l’animale (diventando vacca) partorisce per la prima volta e inizia a produrre latte.

Rapporto “amido/NDF”

Un rapporto “amido/NDF” nella dieta pari a 0,8-0,9 è l’ideale per massimizzare l’ingestione e la produzione di latte limitando al contempo la produzione di metano che è legata maggiormente ai substrati fibrosi che non a quelli non fibrosi. Sotto questo profilo, alimenti ricchi di amido come il silomais, i pastoni di mais (granella e spiga), i cereali e i cruscami sono quindi ottimi per la formulazione di diete adeguate.

Sistemi foraggeri, metanogenesi e sequestro di C nel suolo

La bovina da latte, soprattutto se ad alta produzione, deve ingerire foraggi di elevata qualità, con fibra ben digeribile. Erbai poliennali multisfalcio come i medicai o annuali monosfalcio come quelli di loiessa o di cereali vernini raccolti allo stadio di spigatura o di maturazione lattea possono garantire foraggi di buona/ottima qualità se raccolti tempestivamente e conservati in modo adeguato, fieni o insilati che siano.

Un prato, permanente o avvicendato (per es. di 7-10 anni) con i veri tagli annuali (3-6) fornisce meno sostanza secca (10-15 t/ha) di un erbaio di mais di 1° raccolto o di una successione “loiessa-mais 2° raccolto” o “cereale vernino-mais 2° raccolto” (18-24 t SS/ha), ma richiedendo assai meno lavorazioni ed input, comporta però costi inferiori e un maggior stoccaggio di carbonio nel suolo.

Oggi poi c’è un’attenzione particolare alla componente proteica autoprodotta, tramite foraggi di leguminose come erba medica, trifoglio, pianta intera di soia. Quest’ultima, seminata come secondo raccolto (dopo loiessa o frumento/orzo/triticale a maggio e raccolta verso fine settembre allo stadio R6 (semi verdi in fase di maturazione che riempiono l’intera cavità del baccello) fornisce 8-10 t SS/ha, con il 20% di proteine e il 6% di lipidi. In tal modo si aumenta la disponibilità di proteina aziendale e si può ridurre la quantità di farina di estrazione di soia acquistata, spesso di provenienza dal Sudamerica, con rischio di molta CO2eq connessa al possibile taglio di foresta e al trasporto in Europa. Ruotando la soia con i cereali vernini e poi il mais si avrà anche il vantaggio di avere un terreno più ricco di azoto, grazie ai rizobi presenti nelle radici della leguminosa.

Come sempre la soluzione preferibile è una via di mezzo tra i due estremi, quindi un sistema foraggero che preveda rotazioni tra le diverse colture e i diversi appezzamenti di terreno per garantire una fertilità del suolo, maggiore sostenibilità ambientale e biodiversità e un livello adeguato di autosufficienza alimentare dell’azienda.

Articolo di G. Matteo Crovetto – Dipartimento di Scienze agrarie e ambientali Università degli Studi di Milano –  Componente CSI Assalzoo