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CoVid-19, un patto di filiera per un settore suinicolo al collasso

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La suinicoltura è uno dei settori che sta risentendo in modo particolare dell’impatto dell’emergenza CoVid-19 sull’agroalimentare. Lo squilibrio nella bilancia commerciale, con la limitatezza dell’export, e il calo della domanda hanno messo in ginocchio un comparto centrale per la produzione zootecnica italiana. Il momento è critico e ha bisogno di misure drastiche, come sottolinea Claudio Canali, presidente della Federazione suinicola nazionale di Confagricoltura: “Più che sussidi, servono misure mai pensate per i nostri sistemi produttivi ed un patto di filiera”. 

La produzione nazionale deve ricevere un maggior riguardo: “Vanno limitate le importazioni allo stretto necessario, privilegiando i capi nazionali; vanno raccordati prezzi e costi all’origine ed al consumo. E come filiera con le istituzioni dobbiamo delineare la nuova suinicoltura nazionale, ragionando di programmazione produttiva, Dop e capacità di export delle nostre eccellenze”, aggiunge Canali.

La crisi sta gravando soprattutto sugli allevamenti “classico anello debole di una filiera che di fatto non esiste, anzi vive nel più classico del ‘tutti contro tutti’”.

Giù le vendite all’Horeca

Sono diversi gli elementi che stanno penalizzando la suinicoltura italiana. Da febbraio, con un’emergenza sanitaria che ha colpito in particolar modo le regioni dove si concentra la produzione nazionale, il sistema produttivo ha dovuto riorganizzarsi. Diversi impianti – come ha rilevato di recente Ismea – hanno dovuto rallentare la propria attività. Con gli impianti di macellazione a ritmo ridotto si è generato un aumento di disponibilità di capi vivi sul mercato. Inoltre la sospensione delle attività di ristorazione hanno privato il settore di un importante sbocco: Ismea stima una perdita di circa il 20% delle vendite per la chiusura di bar, ristoranti e mense. 

A ciò – come ricorda Confagricoltura – vanno aggiunti i cambiamenti dei consumi e il crollo del turismo e il rilevante effetto del commercio internazionale che vede l’Italia importare molto. Ben 53 milioni di cosce acquistate all’estero a fronte di 20 milioni di quelle prodotte. L’Italia è poi penalizzata dall’arretratezza degli accordi con la Cina – sottolineano i suinicoltori associati – che la costringe a un ruolo di secondo piano rispetto alla Spagna. A fronte delle centinaia di stabilimenti spagnoli autorizzati a esportare verso Oriente diversi prodotti e tagli suinicoli, gli impianti di macellazione italiani che possono farlo sono nove e possono inviare solo carne congelata nello stabilimento, senza osso. 

L’effetto è di una pressione sui prezzi. Già all’avvio del nuovo anno i prezzi all’origine dei suini pesanti destinati alle produzioni tipiche avevano fatto registrare un calo, calo che è diventato poi generalizzato per tutti i capi vivi

Aumentano i costi negli allevamenti

Il quadro è così caratterizzato da una forte riduzione delle macellazione, stimata da Confagricoltura in un -20%, con più di 200 mila capi in arretrato. E se i prezzi all’origine sono in caduta, i costi di produzione negli allevamenti sono aumentati per via della maggiore permanenza degli animali. “Lo smaltimento delle giacenze è impensabile in tempi brevi, anche se ci fosse una ripresa delle macellazioni. Entro un paio di settimane le scrofaie saranno piene di suinetti invenduti con problematiche legate al benessere, allo stato sanitario e alla liquidità aziendale”, denuncia l’organizzazione.

“Saremo costretti ad assumere decisioni drastiche come quella della riduzione volontaria dei capi nati. Manca spazio nelle stalle e poi allevandoli, nella situazione attuale, le perdite sarebbero di gran lunga superiori al valore a cui si rinuncia”, conclude Canali.

Foto: Pixabay