“Le produzioni zootecniche sostenibili avranno valore aggiunto perché oltre alla qualità alimentare tradizionalmente riconosciuta portano valori sociali, ambientali ed etici”. Ettore Capri, ordinario in Chimica agraria dell’Università Cattolica di Piacenza e direttore del Centro di ricerca sullo sviluppo sostenibile in agricoltura, disegna un futuro in cui responsabilità e consapevolezza saranno riferimenti indispensabili. Ma perché siano “riempiti” di contenuti serve soprattutto un impegno comune. “I punti deboli sono la formazione e l’educazione degli operatori che richiede uno sforzo multidisciplinare nei contenuti ed intersettoriale con il coinvolgimento di autorità, amministrazioni, corporazioni e associazioni, università, ordini professionali”. Percorso lungo, ma praticabile. Anche per il mercato.
“Essere frammentati non giova. Piccole e grandi aziende devono aggregarsi in percorsi di sviluppo sostenibile che rispettino i contesti geografici, economici, le tradizioni”. E nel far questo, si può sfatare anche un mito. La filiera zootecnica non è più o meno sostenibile rispetto ad altri settori. I dati vanno analizzati rispetto alla produzione e rispetto ai consumi e il bilancio finale potrebbe non essere così prevedibile.
Un’impronta “corretta”
Cominciamo dall’acqua. “L’impronta idrica è il consumo di acqua totale di un ciclo produttivo. Per questo la esprimiamo per unità di prodotto, ad esempio un chilo di carne o un litro di latte. È una stima quantitativa che tiene conto dell’uso dell’acqua, ma anche della contaminazione”, spiega Capri. L”’impronta idrica” è, quindi, l’indicatore ufficiale per esprimere il consumo di acqua degli stili di vita, dei processi e dei prodotti alimentari. “Disponendo di dati quantitativi, i consumatori e il mercato possono effettuare confronti, invocare nuove norme, spingere o deprimere l’innovazione tecnologica, creare competizione. Ecco perché quando si parla di impronta idrica e di altre impronte che identificano la sostenibilità – continua l’esperto – parliamo anche di nuove strategie di mercato e di comunicazione”. Il discorso si allarga a prospettive di governo dei processi.
Restando ai fatti e alle critiche mosse al settore zootecnico, seguendo questa impostazione le prospettive cambiano molto. “Non mi stanco di ricordare che poiché l’allevamento zootecnico è ecologicamente utilizzatore di risorse ha naturalmente impronte idriche maggiori, visto che si sommano le impronte delle colture foraggere e quelle dell’allevamento, ma questo dipende solo dalla modalità con cui si fanno le valutazioni”, commenta Capri. Al fondo, quindi, potrebbe esserci un errore metodologico? “Gli indicatori di sostenibilità non vanno utilizzati in modo assoluto – continua il docente -, ma solo in un contesto applicativo di riferimento rivolto a un miglioramento continuo delle azioni, che nel nostro caso sono quelle dell’allevamento”. Ad esempio si possono confrontare impronte idriche di carni appartenenti allo stesso taglio e alla stessa specie per migliorare le performance di uso e gestione dell’acqua aziendale “ma è scorretto confrontarle con una specie foraggera o, paradossalmente, con un altro prodotto alimentare. Questi casi si offrono alla speculazione informativa, al greenwashing e alle speculazioni di mercato. A cui così frequentemente – sottolinea – assistiamo inermi”.
Passando agli stili di consumo alimentare, un altro dato concreto è stato offerto al dibattito degli operati da Capri durante l’ultimo salone dell’alimentazione Nutrimi, tenutosi a Milano. Eccolo. Per la produzione di un chilo di frutta servono 2.500 litri di acqua, per un chilo di carne 15mila. Ma attenzione, un consumatore medio mangia un chilo di frutta ogni 2-3 giorni, che in una settimana vuol dire un consumo “indiretto” di 15mila litri di acqua. Per consumare un chilo di carne – in Italia il consumo è uno dei più bassi in Europa, mediamente 113 grammi al giorno – ci vogliono circa 10 giorni. I conti sono presto fatti: l’impronta idrica della carne non risulta più “pesante” di quella di altri prodotti, come frutta e verdura. “Solo una robusta educazione alimentare può rendere il consumatore resiliente e resistente alle speculazioni informative. Come quelle che sostengono che l’alimentazione a base di carne sia insostenibile”, spiega Capri.
Uniti per la consapevolezza
Per progettare il futuro della produzione bisogna ripartire da qui. La consapevolezza di settore c’è, ma è frammentaria e va aumentata. “Il settore agroindustriale ha dichiarato pubblicamente la sua scelta verso la sostenibilità – ricorda Capri – per far fronte ad un mercato globale caratterizzato in futuro da una forte volatilità delle risorse alimentari. Uno dei motivi è la diminuzione della qualità e quantità di acqua disponibile soprattutto in alcune regioni della Terra: ecco perché tutti devono consumare meno e meglio l’acqua”.
Si tratta di valutazioni di ampio respiro spiega Capri: “La consapevolezza su questi argomenti è materia complessa, richiede intelligenza collettiva e troppo spesso le istituzioni in primis sono inconsapevoli delle conseguenze delle proprie azioni sullo sviluppo sostenibile dei settori produttivi e civili”. Bisogna anche considerare che “non ci sono pratiche umane ‘non sostenibili’ di per sé, ma tutte le cattive pratiche sono insostenibili. Ad esempio, quelle che sprecano risorse naturali, finanziarie, sociali ed etiche”. In campo zootecnico vale lo stesso discorso: “Fermo restando l’applicazione delle norme legislative, se un allevatore contamina l’ambiente non è sostenibile; se non bada al benessere animale non è sostenibile; se non rispetta i vicini quando distribuisce i liquami non è sostenibile e così via”. Quando e perché accade? “Molto spesso la causa è solo inconsapevolezza. Perché le buone pratiche zootecniche esistono, ma un operatore professionale ha bisogno di una formazione adeguata per applicarle”, sottolinea l’esperto.
Le prospettive
E allora le soluzioni. “La mia opinione è che il punto di forza è che parte delle zootecnia italiana sia sostenibile nei fatti, ma che questo giudizio non sia allo stato verificabile attraverso regole condivise. Produzioni zootecniche sostenibili richiedono protocolli di sostenibilità, rendicontazioni e bilanci annuali di sostenibilità, applicazione di indicatori, certificazioni, di una comunicazione efficace per ridurre le asimmetrie informative con i consumatori”. Tutto questo unito a uno sforzo comune: istituzioni più impresa. “Abbiamo un numero elevato di eccellenze che possono rappresentare modelli di riferimento anche internazionali, ma è necessario un programma nazionale – spiega l’esperto – che dopo una fase pilota preveda la diffusione in tutte le realtà zootecniche italiane”. Dal punto di vista pratico, spiega Capri, si può guardare, ad esempio, a “quanto si sta facendo in Italia con il programma istituzionale di produzione dei vini sostenibili, ma il modello deve prevedere soprattutto il coinvolgimento delle idee e degli stakeholder: “Investimenti finanziari per l’innovazione nel settore e restrizioni legislative – conclude – vanno discusse con i portatori d’interesse in un modo partecipativo”.
Cosimo Colasanto