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La disciplina in materia di “Made in”

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Il “Made in” esprime l’origine c.d. “commerciale” di una merce: è l’elemento materiale che identifica il paese di fabbricazione di ciascun prodotto, lo accompagna nella fase di commercializzazione e, specie negli ultimi anni, costituisce un fattore di importante caratterizzazione e differenziazione dei prodotti alimentari nel confronto concorrenziale sul mercato. Nel tempo, diversi fattori hanno influito sull’attribuzione del “Made in”. Le scelte di delocalizzazione produttiva operate dalle aziende hanno, infatti, determinato una frammentazione su scala globale del processo produttivo con conseguente moltiplicazione del numero di Paesi nei quali avvengono le lavorazioni che contribuiscono alla realizzazione del prodotto finito. Parallelamente, la sempre maggiore efficienza dei mezzi di trasporto e la progressiva riduzione delle barriere tariffarie negli scambi internazionali ha aumentato la possibilità delle aziende di approvvigionarsi di materie prime in Paesi terzi, anche e soprattutto extra UE, a costi ridotti.

 

La definizione del Paese di origine di un bene si basa sulle disposizioni comunitarie in materia di origine non preferenziale della merce. Tali disposizioni sono contenute nel c.d. Codice Doganale Comunitario (“CDC”) che individua due criteri: (i) il criterio c.d. “delle merci interamente ottenute”, applicabile a quei prodotti per i quali il processo di lavorazione sia avvenuto in un singolo Paese, ed (ii) il criterio c.d. “dell’ultima lavorazione o trasformazione sostanziale”. In virtù del primo criterio devono ritenersi originarie di un determinato Paese le merci ivi interamente ottenute mentre il secondo è applicabile a quelle merci alla cui produzione abbiano contribuito effettivamente due o più Paesi. Ebbene, in tale ultimo caso, la merce è da considerasi originaria del Paese in cui “ha subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

 

Secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea, si configura una trasformazione sostanziale “solo qualora il prodotto che ne risulta abbia composizione e proprietà specifiche che non possedeva prima di essere sottoposto a tale trasformazione o lavorazione” . A livello nazionale, la disciplina del “Made in” è stata indirizzata verso due distinti obiettivi: da una parte, la tutela contro il c.d. “Italian sounding”, ovvero il fenomeno di contraffazione imitativa che, mediante l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano, falsamente, l’Italia, favorisce la commercializzazione di prodotti non effettivamente riconducibili al nostro Paese e, dall’altra, verso la promozione dell’utilizzo di materie prime alimentari di origine italiana. Quanto al primo ordine di finalità, il Decreto legge 135/2009 ha introdotto nel nostro ordinamento due distinte e nuove violazioni in materia di indicazione del Paese di origine del prodotto: una punita penalmente e l’altra sanzionata in via amministrativa pecuniaria. Si è inteso sanzionare penalmente chiunque faccia uso di un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia4 quando il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento non fossero stati compiuti esclusivamente sul territorio italiano.

 

Viene invece sanzionato con un’ammenda pecuniaria chi utilizzi il marchio con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana senza che lo stesso sia accompagnato da indicazioni precise ed evidenti, o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore, sull’effettiva origine o provenienza estera di tale prodotto. Per quanto riguarda la promozione dell’utilizzo di materie prime alimentari nazionali, il quadro normativo è meno omogeneo e non appare coerente rispetto ai principi generali che l’appartenenza all’Unione Europea impone al nostro ordinamento. Nel dettaglio, lasciando in disparte la normativa specifica sull’olio d’oliva, l’art. 4 della Legge del 3 febbraio 2011, n. 4, recante “Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari” impone l’obbligo di riportare nell’etichettatura dei prodotti alimentari, oltre alle indicazioni di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 109, e successive modificazioni, anche l’indicazione del luogo di origine o di provenienza, prevedendo per i prodotti trasformati l’indicazione non solo del luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale, ma anche del luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione dei prodotti.

 

Tale disposizione, tuttavia, non è ancora applicabile in quanto, per la sua attuazione, necessita di decreti interministeriali non ancora emanati. Ciononostante, è evidente che essa contrasta con i principi comunitari in materia di libera circolazione delle merci nel mercato interno dell’Unione Europea. Di conseguenza, qualora alla norma fosse data attuazione, è prevedibile che la Commissione Europea avvierà una procedura d’infrazione contro l’Italia, per violazione delle norme comunitarie sulla libera circolazione delle merci, così come anticipato dalla stessa Commissione nella lettera del 25 gennaio 2011 dei Commissari Dalli e Ciolos al Ministro Galan.

 

Foto: Pixabay

Luciano Di Via – Avvocato