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Accertamento e certificazione delle specifiche contrattuali nella vendita di commodities

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La verifica e la certificazione delle caratteristiche qualitative della merce è da sempre un passaggio essenziale del commodity trade. Il prezzo viene infatti determinato tenendo conto delle specifiche pattuite ed eventuali discrepanze rispetto alla caratteristiche previste possono rendere la merce inutilizzabile per l’uso previsto, o comportare forti deprezzamenti. Diventa dunque essenziale prevedere le modalità con cui procedere a campionamento ed analisi della merce, facendo in modo che i campioni siano adeguatamente rappresentativi e vengano raccolti nelle varie fasi della movimentazione (in particolare, le operazioni di imbarco e sbarco) in modo tale da riflettere adeguatamente lo stato complessivo del carico.

La prassi vede di regola l’adozione di due di tipologie di clausole: si distinguono in particolare le ipotesi in cui i certificati hanno semplicemente l’effetto di far scattare l’obbligo di pagamento del prezzo da parte del compratore, senza precludere successive contestazioni (non avendo tali certificati carattere vincolante), dai casi in cui all’accertamento della conformità quantitativa e qualitativa contenuta nei certificati viene attribuito invece un valore definitivo e pressoché insormontabile (c.d. clausole “final and binding”). Mentre in passato le clausole che attribuiscono ai certificati di quantità e qualità una efficacia “final and binding” erano considerate abbastanza eccezionali (con la conseguenza che in caso di formulazioni ambigue si tendeva ad escludere che la clausola avesse l’effetto di rendere i certificati “finali”), ormai da tempo tali pattuizioni sono la regola nel commodity trade, al punto da essere state recepite in numerosi dei contratti-tipo.

Le conseguenze, sotto il profilo giuridico e pratico, che nascono dalla scelta di attribuire efficacia “finale” ai certificati di analisi e qualità sono, come è facile intuire, di estremo rilievo, dal momento che sulla base di tali certificati il compratore può trovarsi costretto ad accettare (ed a pagare interamente) merce che in realtà non corrisponde alle specifiche. Tuttavia, l’orientamento giurisprudenziale consolidato è da tempo nel senso di riconoscere piena validità a simili pattuizioni, anche qualora i certificati risultino viziati da errori ed omissioni del perito o del laboratorio che li emette. È essenziale peraltro che i certificati siano rigorosamente emessi dal soggetto indicato, a seguito di analisi e controlli eseguiti nel pieno rispetto delle procedure. L’efficacia del certificato può infatti essere contestata qualora sia rilasciato da un soggetto diverso, o privo dei requisiti e qualifiche indicate. È inoltre possibile inserire nel contratto clausole che contemplano in via preventiva l’eventualità che il certificato sia errato o viziato da errori procedurali. Un precedente significativo sul punto è rappresentato dal caso Apioil v. Kuwait Petroleum nel quale una delle clausole del contratto di vendita prevedeva che il certificato di qualità fosse “final at loading” a meno che non fosse provato che “testing and/or sampling was incorrectly performed”. Profili analoghi sono presenti in un caso di poco successivo, nel quale il contratto prevedeva che il certificato di qualità fosse final salvo il caso di “manifest error”.

La posizione raggiunta dalla giurisprudenza inglese è stato recentemente messa in discussione nel caso “Mercini Lady” 5 relativo ad una vendita FOB di un carico di 38.500 tonnellate di gasolio. Nonostante al porto di imbarco il controllore avesse certificato che il carico era nei limiti previsti, la merce si era presentata invece gravemente fuori specifica al sediment test eseguito all’arrivo, dopo soli 4 giorni di traversata marittima. Parte acquirente aveva dunque rigettato il carico, reclamando danni superiori a 3 milioni di dollari. In primo grado il Giudice Field ha ritenuto che l’obbligo del venditore in un contratto FOB di garantire che la merce sia di “satisfactory quality” implica che essa sia in specifica anche in corso di viaggio, ossia “for a reasonable time thereafter”; la corte ha concluso che tale obbligo finiva per privare di carattere vincolante il certificato di qualità emesso alla caricazione.

La decisione è stata tuttavia drasticamente riformata in secondo grado, dove la Corte d’Appello ha evidenziato che seguendo tale impostazione l’intero sistema finirebbe per essere compromesso (“the whole point of a final and binding determination by an independent inspector on loading would be rendered pointless) determinando una situazione di incertezza, in aperto contrasto con la natura e le finalità di tali certificati (all certainty in international sales of goods, which such inspection clauses are designed to provide… would be utterly broken…).

Resta infine da aggiungere che la natura final di un certificato può essere derogata per effetto di una clausola del contratto, come emerso (in un caso avente ad oggetto una vendita FOB di un carico di sunflowerseeds expeller) nel caso RG Grain Trade LLP UK v. Feed Factors.6 Il contratto prevedeva espressamente che il certificato fosse final, ma i compratori avevano diritto di chiedere una seconda analisi, con la seguente clausola: “Quality and condition to be final at time of loading as per certificate of first class superintendent approved by GAFTA at seller’s choice and expense. The buyers have the right to appoint their own GAFTA approved supervisor at their expense. In this case the sampling to be done conjointly, as per GFATA terms and conditions. 2nd analysis, if any, as per Salamon and Seaber, London.” Il certificato ottenuto dai venditori attestava che la merce era in specifica, ma su richiesta di parte acquirente campioni sigillati venivano trasmessi per una ulteriore analisi da parte Salamon and Seaber, che attestava invece che la merce non era rispondente alle caratteristiche pattuite. Parte acquirente dunque rifiutava la merce e dichiarava il contratto risolto. Nel contenzioso sorto a seguito del rigetto gli arbitri GAFTA in primo e secondo grado hanno ritenuto fondata la posizione degli acquirenti, e nel giudizio che ha fatto seguito all’impugnazione del lodo la High Court ha condiviso le valutazioni arbitrali, rilevando che la previsione del contratto che ammetteva la possibilità per parte acquirente di chiedere l’esecuzione di un nuovo controllo aveva di fatto finito per escludere che il primo certificato fosse final, attribuendo invece carattere vincolate al certificato emesso a seguito dei nuovi test.

 

Foto: © Gajus – Fotolia.com

Claudio Perrella Avvocato