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Locale è sempre meglio?

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Uno degli aspetti più controversi delle produzioni animali italiane è quello che riguarda l’approvvigionamento di materie prime, sia per uso alimentare che direttamente per l’industria di trasformazione, dai mercati internazionali. Marchi di origine e convinzioni radicate in vaste aree del nostro Paese portano ampie fasce di consumatori a credere che  un prodotto  ottenuto con materie alimentari importate sia qualitativamente inferiore ad uno ottenuto con alimenti schiettamente “nazionali” (o regionali o, addirittura, locali). Questa convinzione è poi traslata agli alimenti “assemblati” localmente per arrivare a quelli prodotti altrove e importati. Se dal lato produttivo vi è la necessità di salvaguardare le filiere zootecniche nazionali, anche e soprattutto per il loro valore in termini di esportazione (con la logica conseguenza che gli altri non dovrebbero esercitare la stessa discriminante localistica che opera da noi), dall’altro occorre fare chiarezza sul concetto di cibo locale e sulle distorsioni ideologiche (con pesanti ripercussioni economiche e sociali) che queste possono comportare. 

I movimenti locavori, cioè dei fautori del consumo di cibi esclusivamente locali, stanno diventando sempre più diffusi nei Paesi sviluppati. Le ragioni su cui basano le scelte dei loro aderenti sono a prima vista ampiamente condivisibili: cibo migliore, più sano, prodotto con saperi locali, in grado di migliorare la gestione del territorio e di distribuire con più equità il valore economico nella catena di produzione dai campi alla tavola. Si tratta, in realtà, di una reazione all’esproprio della sovranità alimentare che le grandi multinazionali hanno progressivamente attuato, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso,  in nome del profitto, non garantendo il rispetto dell’ambiente, l’attenzione alle condizioni di  lavoro e l’equa distribuzione del valore fra i players della filiera. La concentrazione del “potere del cibo” in mano a pochi ha portato l’ecosistema nutritivo, l’ambiente cioè nel quale gli abitanti hanno possibilità di rifornirsi di cibo, delle aree periferiche delle grandi metropoli, ad assomigliare sempre più a “deserti alimentari”, con poca scelta, cibi pesantemente manipolati e prevalenza di discount e di fast food. E’ noto che in tali deserti alimentari, le patologie legate all’alimentazione, prima fra tutte l’obesità infantile, diventano il problema epidemiologico-sanitario principale (Lee, The role of local food availability in explainig obesity among young school aged children. Soc. Sci. & Medicine, 2012). Contro la sottrazione della sovranità alimentare, allora, i movimenti locavori hanno incentivato gli Stati all’assunzione di idonee leggi che promuovono le produzioni di prossimità, hanno favorito i farm markets e i circuiti brevi (a km zero, diremmo noi, sulla scia di una riuscita iniziativa di Coldiretti) anche nella ristorazione collettiva a carattere pubblico (scuole e ospedali). Tuttavia, locale è un termine ambiguo: ciascun posto è locale per chi ci abita e non lo è per chi non vi abita! Con la conseguenza che tutti i cibi sono locali a casa loro (parafrasando un noto slogan della  Lega), cioè tutti buoni per definizione, basta che siano consumati in loco. La letteratura scientifica definisce locale un alimento prodotto nel raggio di 100 miglia (ma alcuni consumatori pensano al paese, alla regione, allo stato e così via in termini di locale).  Vediamo se il locale soddisfa tutti i requisiti attesi: più sano, organoletticamente migliore, meno inquinante (minore impatto del trasporto) e più equo (e solidale).  La letteratura scientifica, sintetizzata in una notevole review di Ewards-Jones e colleghi del 2008 (Testing the assertion that local food is best; Trends in Sci Food Tech., 19), non ha elementi dirimenti per affermare che vi sia un rapporto diretto fra  produzione locale e salute o qualità organolettiche dei cibi. In questo studio, per i prodotti deperibili quali frutta e ortaggi, gli autori affermano che “poiché la qualità dipende dal tempo di raccolta e dalla manipolazione dei prodotti, è più importante conoscere le caratteristiche della supply chain che la distanza in cui questi alimenti sono stati coltivati. Gli stessi autori e il World Watch Institute (DeWeerdt, 2013) sostengono, inoltre, che l’impronta del carbonio (ovvero la quantità di CO2 emessa per kg di prodotto alimentare che arriva in tavola) dovuta ai trasporti rappresenta appena il 10% di quella del ciclo produttivo totale, per cui il pomodorino locale trasportato via autostrada è molto più impattante di quello che arriva da una distanza 10 volte maggiore via treno (e 25 volte via nave) oppure se prodotto in maniera inefficiente emette molta più CO2 (in loco) rispetto a quello remoto se prodotto con più efficienza. Patricia Allen, ricercatrice dell’Università di Santa Cruz in California, nel suo articolo “Realizing justice in local food system” (Camb. Jour. Reg. Econ. Soc., 2010), smonta anche la pretesa della maggiore equità dei sistemi alimentari locali rispetto a quelli globali: “Local food systems serve many purposes and improve the quality of life for many people. However, they do not automatically moves us in the direction of greater social justice. In particular, workers, as actors and justice as principle, are often missing both theory and practices of alternative agrifood consumer efforts”. E conclude: “In the face of global desperation and intensifying crisis, we must both work at the local level and create solidarities with those in other localities”. In poche parole, senza uno sguardo lungo ai disequilibri planetari, la teoria “locale è meglio” può trasformarsi nello slogan superconservatore “locale e basta!”. Infatti, le analisi al 2050 della capacità del nostro pianeta di sfamare 10 miliardi di persone mostrano che il peggiore scenario è quello della regionalizzazione (chiusura dei mercati globali) che condannerebbe alla fame (e alla migrazione) miliardi di persone delle aree più povere del mondo (van Dijk e Meijerink, A review of global food security scenario and assessment studies: results, gaps and research priorities, 2014).

E dunque? Se non locavori, consumatori locali, e non globavori, consumatori globali, la soluzione intermedia è nei “glocavori”. Il piatto “glocale, giusto e corretto” dovrebbe essere composto per il 50% di prodotti locali (prodotti entro i 160 km), per il 25% di cibi vicini (consegnabili entro le 48 ore) e il 25% da cibi globali. Il risvolto per le filiere zootecniche nazionali è che risulta più importante la modalità con cui è stato ottenuto un prodotto (benessere animale, bassi impatti ambientali, sostenibilità sociale, ecc..) nel territorio italiano, indipendentemente dall’origine degli alimenti zootecnici impiegati, piuttosto che il perseguimento di una ortodossia localistica il cui unico risvolto può essere la prospettiva di produrre esclusivamente per il vicino di casa.

 

Foto: Pixabay

Giuseppe Pulina