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Ismea, le imprese agroalimentari resistono alla crisi. Bene le carni rosse

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Anche di fronte alla crisi Covid l’agroalimentare italiano farà valere la sua forza e la sua peculiarità. L’impatto delle conseguenze della pandemia su questo settore c’è stato e ci sarà, ma verosimilmente in misura più contenuta rispetto ad altri comparti. I risultati dell’indagine di Ismea e Federalimentare sulle prestazioni delle imprese alimentari davanti alla pandemia fanno ben sperare per la loro solidità nei prossimi mesi. 

L’istituto di ricerca ha infatti analizzato il bilancio di un campione di imprese valutando il grado di stabilità. Oltre il 40% di queste ha dimostrato una resistenza non trascurabile di fronte alle crisi, come quella correlata alla gestione dell’emergenza sanitaria. Tra i singoli settori, oltre alle performance eccezionali come quelle dell’industria molitoria, sono sopra il dato generale i settori delle carni rosse e degli elaborati di carne. Più indietro l’ittico e il lattiero-caseario.

Il quadro generale del settore

La pandemia ha colpito l’economia italiana nel primo trimestre del 2020, in una fase in cui il settore agroalimentare stava ancora godendo di un ciclo positivo, in controtendenza con quello del manifatturiero in generale. Nel 2019 il valore aggiunto creato dal settore, pari a 64,6 miliardi di euro, era cresciuto del 2% rispetto all’anno prima mentre l’intero settore industriale era in perdita, a -0,5%, e il Pil era salito di solo lo 0,3%. La produttività aveva goduto di un rialzo molto netto, sopra il 14%, anche se la crescita del numero di occupati era stata inferiore a quella di tutta la manifattura.  

Dietro questa performance della produzione agroalimentare c’era soprattutto l’ascesa della domanda estera e la capacità del settore di consolidarsi sui mercati fuori dall’Italia. L’export aveva toccato i 44,6 miliardi di euro e l’onda lunga aveva superato la fine dell’anno investendo anche i primi tre mesi del 2020

Proprio il fronte delle esportazioni è stato uno di quelli toccato dalle conseguenze economiche della crisi sanitaria. Nella prima fase l’agroalimentare, che ha portato avanti l’esercizio delle sue attività ritenute essenziali, è stato colpito in maniera meno pesante di altri comparti, dice Ismea. Oltre alle esportazioni, la crisi ha investito anche la domanda interna, impoverita dal drastico calo dei turisti e soprattutto dalla sospensione prima e dalla riduzione poi delle attività del canale Horeca. Molte aziende hanno cercato altri canali di sbocco, ad esempio la vendita al dettaglio, il delivery e l’online. 

Sul fronte interno – stima Ismea – il calo dei consumi fuori casa sarà di circa il 39%, più o meno 34 miliardi di euro. Se si considera un possibile aumento dei consumi in casa, invece, del 5,6% circa, ci potrebbe essere un calo del 10% del totale della spesa agroalimentare per l’anno in corso, quindi intorno a 24 miliardi.

Le tre classi di vulnerabilità

Per valutare la tenuta del sistema di fronte alla crisi, Ismea ha analizzato i bilanci di 6400 imprese. Oltre a quelle industriali, l’istituto ha incluso anche imprese del settore agricolo che, per dimensione e tipo di attività, potevano essere paragonate alle prime, come i caseifici sociali o le imprese di prima lavorazione dell’ortofrutta. Di queste è stato misurato il grado di vulnerabilità prendendo in considerazione alcuni parametri: la redditività, la solvibilità e la solidità finanziaria

Di queste imprese il settore maggiormente rappresentato è quello lattiero caseario, con ben il 23,3% del fatturato totale del campione considerato, seguito dal vitivinicolo (10% del fatturato), mentre a livello geografico due imprese su tre si trovano al Centro-Nord e il resto al Sud. 

Le imprese sono state distinte in tre gruppi.

Primo gruppo

Il 42% delle imprese si trova in questo raggruppamento: sono aziende dalla buona capacità di resistenza anche in caso di shock grazie a parametri tutti positivi. Per Ismea si tratta del ‘nocciolo duro’ dell’agroalimentare italiano. Tra i settori più rappresentati ci sono quello dell’industria molitoria, con il 63% delle sue aziende, dei liquori, con il 59%, della cioccolateria e del caffè/tè, entrambi a circa il 53%. Ma si difendono bene anche i settori della carne rossa, che supera il livello del 45%, e degli elaborati di carne, di cui quasi un’azienda su due rientra in questa categoria. Poco sopra il 40% invece si trova l’ittico mentre sotto questa soglia ci sono il lattiero-caseario e le carni avicole

Secondo gruppo

Nella seconda classe, che viene etichettata come una ‘terra di mezzo’, si trova invece circa il 36% delle aziende prese in considerazione. Hanno qualche problema di liquidità e/o di solvibilità che potrebbero peggiorare sotto i colpi della crisi economica. Qui ci sono anche imprese con buoni livelli di redditività ma con rilievi critici di esposizione debitoria. Per via dei problemi di liquidità, il rischio è che anche nel breve periodo possono verificarsi degli scenari negativi. Tra i settori più rappresentati ci sono quello delle carni avicole (oltre la metà delle imprese si trova nell’area intermedia per via di un buon livello di redditività ma di un dato più critico su solidità finanziaria e solvibilità), quello del lattiero-caseario (il 46%), l’ittico e l’ortofrutta (circa il 40%). 

Terzo gruppo

Infine il cosiddetto ‘ventre molle’, penetrabile dalla crisi. Per queste imprese, pari al restante 21% circa, l’impatto della congiuntura economica potrebbe risultare davvero pesante. Sono aziende che già negli ultimi anni avevano mostrato una ridotta redditività, spesse volte insieme a problemi di liquidità e di indebitamento. I settori più rappresentati sono quello della birra (38%) e dell’olio d’oliva (34%) ma presentano criticità anche il vino e gli altri oli (tra il 20% e il 25%). Poco presenti le aziende delle carni avicole e dell’industria molitoria.

In generale, in tutto il campione, la dimensione delle aziende emerge come fattore di protezione: più del 25% delle imprese fino a nove dipendenti ha elementi di vulnerabilità. Infine a livello geografico la percentuale maggiore delle aziende più solide si trova al Sud e non al Centro-Nord, rispettivamente 45% e 42%.



Foto: Pixabay

 

red.