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Consumi alimentari 2016 ancora in stallo

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Dallo scoppio della crisi, il 15 settembre 2008, ci separano più di otto anni, ma il sistema continua ad avere il freno a mano tirato. Ed è sempre più chiaro che Larry Summers, quando ha rispolverato anni fa il concetto di “stagnazione secolare” (inventato da Alvin Hansen a inizio anni Trenta, dopo la crisi del 1929), non è stato un profeta di sventura, ma un economista obiettivo. C’è da aggiungere che, dopo il 1929, la disoccupazione si trascinò negli USA per tutti gli anni Trenta e si interruppe solo col gigantesco sforzo produttivo del paese legato all’entrata nel secondo conflitto mondiale.
Se Dio vuole, rischi di grandi conflitti oggi non ce ne sono (anche perché gli effetti sarebbero catastrofici per tutta l’umanità), per cui bisogna misurarsi con la realtà deludente dei numeri e con le misure di politica economica.

Nel settore alimentare, i consumi rappresentano il parametro congiunturale più critico e più lontano dal vedere barlumi di luce in fondo al tunnel. La produzione alimentare 2016 ha perso circa 3 punti rispetto al 2007, ma dà faticosi e oscillanti segnali di recupero (sui primi 9 mesi 2016 segna un +0,3%). L’export alimentare 2016 ha rallentato il passo, ma continua a crescere con tassi attorno al +2-3%. Solo i consumi interni confermano una discesa inarrestabile. Infatti, dopo i 15 punti in valuta costante perduti dal 2007, il 2016 segna ancora rosso e non sembra vedere il fondo.

Eppure, nella fase di bassa inflazione che ha caratterizzato l’ultimo biennio, la variazione del reddito lordo si è tradotta quasi per intero nella crescita del potere di acquisto delle famiglie, per la prima volta dal 2008. E questo ha permesso una ripresa della spesa per i beni durevoli, e per i servizi alberghieri e ricreativi, cui non si è accompagnato un eguale recupero della spesa per i generi alimentari. Ricordiamo che essi erano stati interessati da una modesta dinamica inflativa fino al 2015, e che rappresentano, in base ai dati Istat, il 17,7% del totale consumi delle famiglie residenti.

Nello specifico, i dati elaborati da Ismea sui risultati dei Panel Nielsen (“vendite presso la distribuzione” ed “acquisti delle famiglie”), hanno evidenziato, nel primo semestre 2016, una nuova contrazione della spesa del -1,2% in valore.
Spingendosi oltre, fino al mese di settembre, le cose non migliorano. Il segmento più performante della distribuzione organizzata, conferma infatti, in questa data, cali medi del -1% per l’area aggregata dei super mercati e degli ipermercati, e un calo ancora più marcato per gli “iper”, pari al -3,4%.

D’altra parte, il segmento di mercato legato ai mangimi, quello delle carni, ha sofferto in modo specifico, con un -6,1% nel semestre per il perimetro bovino e avicolo e un -5,6% per i salumi. Tuttavia, il comparto mangimistico ha registrato trend di produzione pari al +4,8% a settembre e al +3,9% sui nove mesi. Sono variazioni significative, che surclassano il +1,9% del mese e il +0,3% del progressivo sui nove mesi segnati, in parallelo, dal grande aggregato alimentare. Se ne può dedurre che, se in molti casi la macellazione ha sofferto di fronte alla crisi della domanda, l’attività di allevamento ha tenuto. Anche perché, come nel caso del bovino, per compensare il calo dei consumi si è fatto meno ricorso alle importazioni (soprattutto dalla Francia) valorizzando invece la produzione nazionale.

Va anche sottolineato, infine, che gli ultimi dati 2016 stano confermando un ritorno alla deflazione. Non è una buona notizia. I massicci acquisti di titoli operati dalla BCE con il Quantitative Easing, pari a 80 miliardi al mese, stanno facendo risalire lentamente il lubrificante-inflazione in molti paesi europei, che ormai naviga attorno al +0,5%, mentre in Italia essa rimane ancora bloccata su un decimale di punto sotto zero.

Il rischio è che la ripresa si faccia ancora più lontana, mantenendo il Paese nella fase di stallo di cui è prigioniero. Non a caso la crescita del PIL rimane attorno alla metà di quella media UE: una malattia che conosciamo e che dura da vent’anni. Occorrerebbe un forte colpo di volano, capace di innescare, con massicci investimenti in infrastrutture, innovazione, produttività, rimbalzi significativi su sviluppo e occupazione. Ma non è impresa facile, con tassi di crescita del PIL sotto l’1%, e con previsioni che indicano anche nel 2017 un +0,9%. E non è facile, con oltre 70 miliardi di interessi annui, ostaggio dello spread, da pagare sul debito. E’ una situazione che, a meno di aumentare ancora il ciclopico debito del Paese (col rischio di bancarotta sul lungo periodo), lascia poco spazio per reperire dosi importanti, non “pediatriche”, di risorse fresche.

Intanto, è ben chiaro che occorre eliminare definitivamente la prospettiva al 2018 di un aumento dell’Iva dal 10 al 13% e dell’Iva ordinaria dal 22 al 25%, e poi al 25,9% dal 2019. Sono aumenti che, per una famiglia tipo, comporterebbero ricadute di spesa, a regime, pari a 782 euro annui. Quanto basta per congelare le prospettive di ripresa del mercato su tempi biblici.

 

Foto: Pixabay

Luigi Pelliccia