Home Economia L’analisi di Nomisma: dipendenza dall’estero e vincoli strutturali frenano la filiera agroalimentare

L’analisi di Nomisma: dipendenza dall’estero e vincoli strutturali frenano la filiera agroalimentare

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“Buona parte del made in Italy alimentare richiede l’approvvigionamento di importanti produzioni agricole di base come cereali, soia, carni bovine e suine, latte dall’estero, fattore questo che sposta una parte rilevante del valore delle vendite alimentari al di fuori dei confini nazionali”. È quanto si legge nell’analisi dell’Istituto Nomisma dal titolo “La filiera agroalimentare italiana: inefficienze si, speculazioni no” presentato in conclusione di Cibus 2014. Il paper, firmato dall’economista Paolo Bono, esamina i fattori che pesano sul sistema-agricoltura che rappresenta ormai il 13,9% del PIL italiano “in tendenziale crescita dal 2008 in poi”, ricorda il documento. Tra le note dolenti oltre a quelle della dipendenza strutturali dalle materie prime estere, l’analisi (è possibile scaricarla qui) aggiunge “gli effetti che derivano dai deficit infrastrutturali e dagli elevati costi di sistema”.

Eccone un sintetico elenco proposto dall’autore per le imprese della filiera. Rapportato a 100 euro di spesa alimentare, i costi sono:

un costo del trasporto su gomma delle merci (1,59 €/km) superiore del 32% rispetto alle imprese spagnole (1,21 €/km), del 20% rispetto a quelle francesi (1,32 €/km) e del 18% rispetto a quelle tedesche (1,35 €/km);

un costo dell’energia elettrica (0,22 €/kWh) superiore del 70% alla media comunitaria (0,13 €/kWh)

addetti ed occupati nelle imprese della filiera (agricole, industriali, distributive, commerciali e della ristorazione), per un valore di 35 euro;

imprese di altri settori che con la filiera agroalimentare intrattengono relazioni commerciali (imprese di trasporto, logistica, di fornitura energetica, di packaging, ecc.), per un valore di 34 euro;

imprese della filiera agroalimentare tramite il rinnovo del proprio capitale aziendale (ammortamenti), per un valore di 11 euro;

Stato, a titolo di imposte dirette (IRES e IRAP) e indirette (IVA) incassate, per un valore di 9 euro;

sistema finanziario, tramite le rendite incassate sui capitali erogati in prestito, per un valore di 5 euro;

imprese estere, per le esportazioni nette (al netto delle importazioni) verso l’Italia, per un valore di 3 euro;

imprenditori, tramite gli utili conseguiti, per un valore di 3 euro.

 

Riassumendo, “del prezzo pagato dai consumatori italiani per beni alimentari ben il 97% serve a ripagare i costi di produzione, mentre la somma di tutti gli utili conseguiti dalle imprese dei diversi anelli della filiera raggiunge appena il 3%”, spiega più avanti il documento, sottolineando “il progressivo spostamento di valore al di fuori della filiera”.

 

 

Altra criticità del tessuto “la ridotta dimensione delle imprese, cui si affianca un grado di concentrazione della fase distributiva non ancora allineato a quanto avviene nei principali paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito)”, fa notare il documento. “Ciò contribuisce a mantenere elevato il numero di passaggi nella filiera e a ridurre la possibilità di raggiungere economie di scala utili alla riduzione dei costi di produzione”. “Queste criticità strutturali, di filiera e di sistema, – si legge nel documento – provocano un aggravio di costi che si ripercuote sia sulla competitività delle imprese che sulla formazione dei prezzi alimentari al consumo”.

 Foto: ©Gajus_Fotolia

Redazione