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La Carne di bufaloCaratteristiche dietetico nutrizionali e potenzialità di mercato

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L’evoluzione dell’allevamento bufalino in Italia

La specie bufalina si caratterizza per una spiccata capacità di adattamento all’ambiente. La elevata resistenza agli ecto e agli endoparassiti, nonché la capacità di migliorare l’efficienza di utilizzazione degli alimenti in condizioni di carenza foraggiera hanno fatto si che in passato, grazie all’allevamento di questa specie animale, si potesse creare una economia in territori paludosi, caratterizzati da produzioni foraggiere grossolane e in cui predominava la malaria, dove ogni altro tipo di allevamento e/o attività agricola risultava impossibile.  

 

Fino al secolo scorso, le paludi hanno caratterizzato le principali zone di allevamento bufalino in Campania, nel Lazio e nella Capitanata di Foggia, aree nelle quali il bufalo era impiegato anche come mezzo di trasporto in quanto esso, soprattutto nei periodi più piovosi, era l’unico animale in grado di percorrere e trainare carri in terreni paludosi (Zicarelli e Campanile, 2001). La capacità di sviluppare una così forte forza motrice in terreni pesanti faceva sì che i bufali venissero impiegati anche per trainare a secco le reti da pesca lungo il Sele, il Volturno ed il Garigliano, nonché per dragare i letti dei “regi lagni” e per rimuovere il materiale alluvionale. I bufali venivano utilizzati altresì per il traino a guado dei fiumi e per lo spurgo periodico di canali e fossi, perché nuotando a frotte, se le acque erano alte, oppure camminando sul fondo, riuscivano ad avviluppare agli arti la vegetazione acquatica estirpandola; inoltre, smuovendo la fanghiglia, la rendevano più facilmente asportabile dall’acqua. In merito Maymone (1937) riporta quanto segue:  “Tipico è stato questo impiego dei bufali nelle paludi Pontine prima che la Bonifica avesse trasformata la secolare palude magna in centri abitati ed in una fitta rete di strade e di poderi, dove fino a pochi anni fa, 1930, circa 200 bufali suddivisi in gruppi di una cinquantina di capi ciascuno, provvedevano allo spurgo di una rete di circa 130 km di canali, alcuni dei quali navigabili”. D’altro canto, la creazione da parte dei Borboni di un caseificio sperimentale nella tenuta reale di Carditello, in provincia di Caserta, dimostra come i governati dell’epoca apprezzassero questo tipo di allevamento e i prodotti che ne derivavano (Zicarelli, 2001). L’esistenza in epoca borbonica di una realtà produttiva e di un commercio di latte e prodotti caseari bufalini tali da indurre sia ricerca di tecniche di miglioramento sia provvedimenti di tutela, dimostra quanto il Regno delle Due Sicilie non fosse affatto arretrato in tema di politica agricola e di sviluppo.  

 

Ponendo a confronto le condizioni dell’allevamento riportate nel breve excursus storico descritto con l’attuale indirizzo produttivo di una azienda bufalina, è possibile evincere la versatilità e le potenzialità di questa specie animale che si è saputa egregiamente adattare alle esigenze del mercato. Oggi, infatti, l’attività principale dell’allevamento bufalino è rappresentato dalla produzione del latte da destinare alla trasformazione casearia, essendo ormai totalmente superato l’impiego del bufalo come animale da lavoro, alla luce del progresso nella meccanizzazione agricola. Ciò si è verificato soprattutto grazie alla lungimiranza degli allevatori bufalini, i quali hanno continuato a credere nelle potenzialità di questo animale e non hanno intrapreso l’allevamento di altre specie, pur contro tutte le aspettative di molti analisti del passato i quali ne paventavano una drastica diminuzione dopo la bonifica dei territori paludosi.

 

Al contrario, il patrimonio bufalino nei decenni successivi alle bonifiche si è talmente incrementato che, con i suoi 200 mila capi, l’Italia rappresenta il Paese che alleva più bufale in Europa. Stime non ufficiali, infatti, riportano che agli inizi del 900 il numero di capi bufalini si aggirava tra i 20.000 e i 15.000 capi circa, per ridursi a12. 000 nel secondo dopoguerra, decimati dai tedeschi in ritirata dopo lo sbarco a Salerno. La trasformazione della nostra civiltà da agricola, con elevato tasso di auto approvvigionamento ed auto consumo, ad industriale, consumatrice e non più produttrice di beni alimentari avvenuta negli anni della ripresa economica e del grande esodo delle popolazioni rurali verso una occupazione stabile nella nascente industria, fece considerare, a quell’epoca, la bufala come un futuro animale a rischio di estinzione, in quanto non sussistevano più le condizioni ambientali tali da giustificare la razionalità economica dell’allevamento del bufalo. Per garantire l’approvvigionamento alimentare ed il soddisfacimento della domanda alimentare si dovettero adottare politiche di sovvenzione e finanziamento di una agricoltura intensiva a basso impiego di mano d’opera (diventata sempre più di difficile reperimento), che potesse anche garantire la competitività sui nostri mercati. Si mirava quindi ad una industrializzazione dell’agricoltura, fenomeno già avvenuto negli altri Paesi Europei nei confronti dei quali, per la nascente Unione Europea, non si poteva intraprendere alcun tipo di politica protezionistica nell’ambito della PAC.

 

Mentre nel resto d’Italia, al fine di garantirsi una minima competitività dei propri prodotti, taluni allevatori hanno introdotto razze più produttive a discapito della qualità e distruggendo un patrimonio zootecnico di inestimabile valore, nel comparto bufalino tale fenomeno non è avvenuto. In pochi decenni il bufalo da animale da impiegare per l’utilizzazione dei territori marginali si è trasformato in un animale ad elevata produzione specialistica; tale trasformazione è avvenuta in un lasso generazionale molto breve se confrontato all’evoluzione di altre realtà zootecniche italiane. Con ciò possiamo affermare con certezza che si tratta di una specie dalle elevate potenzialità produttive e dotata, inoltre, di grande versatilità e diversificazione.  Se da una parte i nostri allevatori sono stati lungimiranti nel continuare ad allevare il bufalo dall’altra parte sono stati molto miopi nel settorializzarsi nella sola produzione di latte, anche se si tratta di una produzione molto redditizia. La valorizzazione della carne potrebbe essere vista come una valida alternativa alla sola produzione di latte per la caseificazione. Utilizzando maschi e manze non idonei alla riproduzione ed alla rimonta si potrebbe creare, con la produzione della carne, una attività in grado di garantire un reddito aggiuntivo di volume non trascurabile. Di ausilio potrebbero certamente essere gli eventuali introiti derivanti dal commercio delle pelli. Le pelli del bufalo presentano una grana più marcata rispetto al bovino e grazie alla caratteristica del fiore, parte superiore della pelle, sono maggiormente commercializzabili, presentando sia una eccellente resistenza meccanica all’abrasione sia una discreta flessibilità. Con lo sviluppo di tale commercio verrebbero a diminuirsi tutti gli attuali costi per lo smaltimento oltre ché aversi un ulteriore reddito aggiuntivo (Valvano, 2000).    

 

Il bufalo, animale produttore di carne  

L’allevamento del bufalo da carne in passato veniva effettuato dai latifondisti, che utilizzavano i terreni marginali per i vitelli che venivano abbattuti ad oltre due anni di età. La carne di questi animali non sempre è stata apprezzata dal consumatore, in quanto quella derivante da soggetti in buono stato di nutrizione veniva venduta come bovina mentre quella di qualità scadente veniva proposta ai consumatori come carne di bufalo. Ciò non ha incentivato i consumi di tale derrata, in special modo nelle zone tradizionali di allevamento. Già in passato esistevano pareri discordanti circa le caratteristiche qualitative e di sapidità della carne, probabilmente legate alla tipologia di allevamento dei soggetti destinati al macello (Campanile et al., 2001b ). Secondo Vito Antonio Ascolesi (1852) “la carne del bufalo è dura e disgustosa al palato, e ripugnante all’odorato, anche quando l’animale è giovine” mentre per Almerico Cristin (1862) “quando il bufalo è giovane è men cattiva; anzi la carne del bufalino di un anno, detto annutolo, è eccellente, né distinguesi affatto da quello del vitello……..; e c’è chi dice preferirsi quella a questa per aroma e squisitezza”, dello stesso parere è Giuseppe Santini (1903) “   quella dei bufalotti è assai pregiata e, mangiata inconsciamente, può senza dubbio passare per carne di bovino……. La carne di bufala vien mangiata in Italia anche affumicata e salata, e come tale, se ne può ritrarre anche un prezzo molto maggiore, giacchè si mantiene per mesi senza alterarsi”. L’interesse nel valorizzare il bufalo anche come produttore di carne non è di sicuro una esigenza dei nostri tempi, ma ha radici che se pur molto lontane nel tempo sono vicine alla nostra tradizione e cultura alimentare. Risale al 1874 uno studio dello Zoccoli dal titolo “Sulle carni bovine e bufaline e su quelle degli altri animali da macello”, indagine dalla quale si evince già da quegli anni una volontà di approfondire l’interesse nei confronti delle carni di questo animale. L’autore condusse le sue ricerche presso il macello di Napoli e calcolò in bufale adulte una resa in peso morto variabile fra il 44% ed il 53%. Una ulteriore convalida di un remoto utilizzo del bufalo come produttore di carne viene fornita da Stazi (1910), il quale riporta in una sua analisi statistica sulle macellazioni tra il 1900 ed il 1910, un totale di 17.674 capi bufalini mattati tra Roma e Napoli.

 

 

Bufali adulti

4.221

Bufalotti

 

6.794

Totale

 

11.015

 

ROMA

Bufali adulti

3.254

Bufalotti

 

3.405

Totale

6.659

 

Totale capi macellati 1900-1910

17.674

 Tabella. I. Numero di capi macellati nei macelli di Roma e Napoli dal 1900 al 1910

 

Foto: Pixabay

Federico Infascelli