La persistente debolezza dei mercati mondiali dei cereali deprime i ricavi dei produttori nazionali di grano, mais, orzo, etc., crea turbolenza e incomprensioni nei rapporti commerciali tra gli attori della filiera agricola. Sono infatti ripresi, sui media, gli abituali scambi di accuse sulle responsabilità della situazione.
Quanto avviene è comunque l’ennesima prova della inadeguatezza strutturale del mercato italiano nel nuovo contesto di una Europa a 27 paesi.
Sulle caratteristiche geologiche del nostro Paese o sulla carenza di larghe estensioni da destinare a cereali, i limiti esistono e sono pressoché immutabili.
Si evidenza però, nell’ attuale fase di mercato, una anomalia tutta italiana.
Il nostro Paese è notoriamente deficitario di cereali, quindi il prodotto italiano dovrebbe “andare a ruba” sempre che risponda ai requisiti delle industrie acquirenti ed il prezzo richiesto, che dovrebbe beneficiare di un minor costo logistico rispetto al cereale importato, sia in linea con l’offerta internazionale.
Seguitare a pretendere un “premio” per la “qualità” del prodotto nazionale è una utopia che purtroppo è propagandata a diversi livelli, anche istituzionali. L’industria alimentare e zootecnica nazionale, che “deve” importare circa il 40-45 % delle materie prime, il problema della qualità lo ha da sempre risolto con grande professionalità tantoché il” made in Italy” continua ad essere apprezzato in tutto il mondo.
Altre sono quindi le difficoltà che hanno i produttori cerealicoli nazionali per far fronte alla volatilità dei mercati e per essere competitivi nel rapporto con gli acquirenti industriali.
Il rilancio delle strutture operative della ex Fedit potrebbe portare il dialogo tra produttori agricoli ed industriali su temi concreti e aspetti operativi, senza inquinamenti ideologici o presunzioni di “centralità” di una delle controparti e senza richieste di sostegni parapolitici nelle negoziazioni commerciali.
Il mondo agricolo che agisce nel settore cerealicolo deve comprendere che le norme comunitarie che regolano il flusso delle produzioni, dell’ export/import non sono né eludibili né aggirabili. Le direttive sanitarie non sono armi per proteggere un paese rispetto ad agricoltori di altre nazioni, in particolare se comunitari, ma sono vere garanzie per i consumatori europei.
Il commercio comunitario, in particolare quello dei cereali, è divenuto fluido, nell’ interesse di tutti sono cadute barriere doganali e paletti burocratici, le merci che fanno concorrenza alle nostre produzioni arrivano da molte origini, anche vicine, per quantitativi importanti e con cadenze regolari, come richiesto dalle necessità delle industrie di trasformazione.
Non è quindi sulla controparte industriale che si possono scaricare problemi e deficienze strutturali del settore agricolo nazionale.
I problemi strutturali della nostra agricoltura, che esistono e contribuiscono unitamente a deficienze tipiche del nostro Paese (vedi la difficoltà cronica all’unità di azione delle nostre Confederazioni) rendono effettivamente ardua la professione di produttori di cereali. Questo è però un tema da discutere a Bruxelles. Per altri comparti le nostre istituzioni qualcosa l ‘hanno ottenuta, ma per i cereali si dovrebbe fare di più pur sapendo che al di là delle Alpi, dalla Francia ai Balcani, disponibilità considerevoli di cereali premono giornalmente sui nostri mercati.
Riteniamo che il mondo cerealicolo nazionale, produttori, industria e commercio hanno molti temi su cui discutere in confini di reciproca utilità. Ciò può avvenire in un contesto professionale, non demagogico né aggressivo, che al momento non c’è, ma che non dovrebbe poi essere cosi difficile creare tra settori di antica e comune origine, che dalla terra traggono le loro ragioni d’essere.
A chi e quando la prima mossa?
Pubblicato: Ottobre-Dicembre 2009
Filippo Galli