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Giornata nazionale anti-spreco, il ruolo della mangimistica per prevenire la perdita di cibo

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L’impegno per la sostenibilità non può non prevedere il contrasto allo spreco e alla perdita di cibo. Ridurre la quantità di alimenti non consumati significa utilizzare in maniera più efficiente le risorse. L’Onu ha incluso il contrasto allo spreco alimentare nell’Agenda 2030 e l’obiettivo è stato condiviso dall’Unione europea nella sua strategia Farm to Fork. Si tratta di una battaglia che l’industria mangimistica condivide e che registra proprio il contributo dei mangimisti italiani ed europei. Il comparto ha da tempo dimostrato le sue capacità di utilizzo co-prodotti e alimenti non più destinati al consumo umano nella sua attività produttiva. Sul tema anche i consumatori sembrano aver maturato maggiore consapevolezza. Lo indicano i dati diffusi alla vigilia dell’ottava edizione della Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare il 5 febbraio nell’ambito della Campagna Spreco Zero-Last Minute Market..

Nel 2020 lo spreco di cibo pro-capite in Italia si è ridotto di 3,6 kg raggiungendo quota 27 kg. L’impatto in termini economici è comunque considerevole: 6,4 milioni di euro, valore che arriva a sfiorare i 10 miliardi considerando anche le perdite in campo e lo spreco dell’industria e della distribuzione (fonte dati: Waste Watcher International Observatory con Distal Unibo su rilevazioni Ipsos)

50% in meno entro il 2030

La distinzione tra spreco e perdita di cibo è rilevante perché chiama in causa non solo i consumatori ma anche i produttori, la grande distribuzione e tutto il comparto vendita. L’obiettivo numero 12 di sviluppo sostenibile definito dalle Nazioni Unite dispone, al punto 3, il dimezzamento dello spreco alimentare globale pro-capite a livello di vendita al dettaglio e dei consumatori e la riduzione delle perdite di cibo lungo tutta la catena entro il 2030. Quindi in ogni fase della filiera, dal campo alla tavola, il cibo può essere perso (a livello di produzione) o sprecato (a livello di vendita e consumo).

Anche la Commissione europea ha individuato la necessità di prevenire e ridurre sprechi e perdite. Nella strategia Farm to Fork l’esecutivo Ue ha ribadito l’obiettivo dell’Onu, con la riduzione del 50% dello spreco alimentare pro-capite sempre entro il 2030. Questo permette di preservare la biodiversità, gestire in maniera più efficiente i rifiuti, recuperare nutrienti e materie prime. E qui entra in gioco la mangimistica che svolge un ruolo attivo ed esemplare nel contrasto alle perdite alimentari. Effpa, l’Associazione europea dei trasformatori di ex prodotti alimentari, stima che nel 2025 la produzione di alimenti non più destinati al consumo umano ma riutilizzabili dalla mangimistica potrebbe salire a 7 milioni considerando le innovazioni e la spinta dell’Ue alla riduzione dello spreco di cibo. 

Il contributo della mangimistica

Il ricorso a un modello di economia circolare è rivelatore dell’efficacia dell’attività di recupero di prodotti alimentari per la produzione di mangimi. In questo modo il comparto aumenta l’efficienza dell’uso di risorse e riduce l’impatto ambientale di zootecnia e acquacoltura in un’ottica di approvvigionamento sostenibile. Per produrre mangimi, quindi, si fa ricorso non solo alle consuete materie prime, soprattutto cereali, ma anche a materie prime alternative: co-prodotti e prodotti non più destinati all’uomo fino a materie prime innovative come alghe e insetti. La mangimistica può così rifornirsi di ingredienti di qualità, ben bilanciati da un punto di vista nutrizionale e sicuri, grazie al rispetto delle normative in vigore, per gli animali da allevamento.

Tra i co-prodotti valorizzati dall’industria di alimenti per animali ci sono quei prodotti che non hanno alcun ruolo per l’alimentazione umana o provenienti dalla produzione di biocarburanti: melasso e polpa della barbabietola da zucchero, i co-prodotti della produzione di amido, birra e succhi di frutto, le farine di soia e colza. Nel 2019 tra le materie prime utilizzate dalla mangimistica dei 28 Paesi Ue il 12% erano co-prodotti dell’industria alimentare e di bioetanolo (dati Fefac, Federazione tra i Produttori europei di mangimi).

Sempre in una prospettiva di economia circolare, poi, la mangimistica è in grado di reinserire nel ciclo produttivo prodotti che altrimenti andrebbero persi: sono i prodotti non più destinati all’alimentazione umana. Si tratta di prodotti non considerati idonei al consumo ad esempio per difetti di forma, colore, etichettatura, quindi perché non conformi agli standard richiesti. Oppure i surplus di prodotti pensati per le vendite stagionali. In queste categorie non rientrano gli ‘scarti’ o gli ‘avanzi’ della ristorazione. Dai cereali per la colazione al cioccolato ai prodotti dolciari e dell’industria della panificazione. Se non sono più considerati vendibili per l’uomo possono esserlo per gli animali, in particolar modo per il comparto suinicolo. Diventano ingredienti di mangimi ricchi di energia e di altre sostanze, come i grassi. 

Secondo Effpa sono circa 3,5 milioni le tonnellate di questi prodotti lavorati annualmente dall’industria di mangimi nei Paesi europei in cui l’associazione è attiva. Il dato sale a 5 milioni di tonnellate se si considerano tutti i Paesi membri Ue.

Foto: Unsplash