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La produzione di mais in Italia: una sfida per la filiera zootecnica e per il made in Italy

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I dati relativi alle semine di mais nel corso del 2017, che hanno interessato solo 646 mila ettari, e di questi solo 573 mila nel Nord Italia, segnano un nuovo record storico, in negativo, per il nostro Paese: le superfici coltivate a mais non erano mai state così poche almeno negli ultimi 100 anni. Ma l’aspetto più rilevante è determinato dal fatto che tale valore non rappresenta un’eccezione determinata da eventi eccezionali: si tratta piuttosto di un andamento che nel nostro Paese sta assumendo tratti che devono preoccupanti, anche se ampiamente giustificati da diverse condizioni economiche e di politica agraria.

Gli effetti del disaccoppiamento degli aiuti Pac
Per comprendere l’andamento delle superfici coltivate a masi (oltre che ad altre colture) è innanzitutto necessario identificare alcuni cambiamenti strutturali che sono intervenuti negli ultimi anni e che hanno segnato una forte discontinuità rispetto al passato.
Il primo di questi cambiamenti è quello relativo alla politica agricola comune (Pac) dell’Unione Europea. Con l’avvio della cosiddetta riforma Fischler(dal nome dell’allora Commissario per l’agricoltura) del 2003, avviata in Italia a partire del 2005 con riferimento alle colture cerealicole, il disaccoppiamento degli aiuti è diventato effettivo e totale. Gli aiuti ad ettaro riconosciuti agli agricoltori che fino al 2004 erano riconosciuti agli agricoltori in misura differenziata per coltura, e solo dopo la verifica dell’effettiva rispondenza tra coltura dichiarata e sua effettiva coltivazione, sono diventati completamente indipendenti (“disaccoppiati”, cioè non più accoppiati) rispetto alle scelte produttive.
Con il disaccoppiamento totale degli aiuti, gli agricoltori sono stati spinti in modo sempre più chiaro e forte verso un approccio molto diverso al mercato. Se prima la scelta di coltivare una particolare coltura, ad esempio il mais, poteva servire per accedere a un certo tipo di aiuto, dopo la riforma ciò non era più vero, o meglio non era più necessario; dal 2005 gli aiuti ad ettaro sono stati tradotti in “titoli” (detti anche “diritti”) che permettono di ottenere un aiuto ad ettaro, indipendente dalla scelta produttiva, in base al livello di aiuto calcolato su base individuale (cioè per ogni singolo agricoltore) e storico: il riferimento iniziale era quello del triennio 2000-2002.
Uno degli effetti, anche esplicitamente desiderati, di questo cambiamento radicale di politica agricola, è stato proprio quello di spingere gli agricoltori ad avvicinarsi in modo deciso ai mercati e quindi a diventare più “imprenditori” che semplici “produttori”.
In questo contesto, il mais ha risentito in misura decisiva Un’implicazione evidente e molto significativa è stata la scelta operata progressivamente dagli agricoltori, di ridurre progressivamente le superfici seminate a mais nel nostro Paese. Così si spiega il passaggio dai circa 1,2 milioni di ettari del 2004, anno immediatamente precedente l’avvio del disaccoppiamento per i cereali in Italia, ai 646 mila ettari del 2017, poco più della metà, con una discesa che non lascia spazio a fraintendimenti.

Certo, anche altre possibili cause meritano un’attenzione, quali l’emergere prepotente del problema aflatossine, i problemi crescenti connessi con il cambiamento climatico, una diminuzione dei prezzi internazionali. Tuttavia, a ben osservare, queste sono solo possibili parziali “con-cause”: il motore principale del cambiamento nelle decisioni di semina degli agricoltori è stato principalmente determinato dall’eliminazione degli aiuti accoppiati che per tanto tempo, in particolare tra il 1992 e il 2004, avevano invece sostenuto e promosso le scelte produttive degli agricoltori.
In particolare, è opportuno ricordare che il nostro Paese si caratterizza per una dotazione relativamente scarsa di terreni agricoli e ciò determina, in modo strutturale, un costo per l’uso di questo fattore di produzione più elevato rispetto a quello di molti altri Paesi, anche europei (Francia, Romania, ecc.). Per una coltura estensiva come il mais, questo elemento mina alla base la redditività. Per questo era piuttosto logico attendersi che il venir meno di aiuti specifici legati a questa coltura, nel nostro Paese avrebbero comportato una relativa disaffezione verso di essa. E ciò nonostante il fatto che l’abbondante dotazione di acqua per irrigazione, soprattutto nella pianura padana a nord del Po, possa rappresentare un indubbio punto di forza.
Qualcuno potrebbe essere tentato di identificare, tra le cause, anche gli andamenti dei prezzi internazionali decisamente bassi negli ultimissimi anni;ma è altrettanto vero che dal 2005 in poi abbiamo assistito a tre grandi bolle dei prezzi delle commodities agricole, con prezzi che anche per il mais sono stati assolutamente più elevati (nel 2007-08, 2010/11 e 2012/13). Ma non per questo le superfici coltivate in Italia sono cresciute; anzi.
Anche il cambiamento climatico potrebbe aver contribuito, anche se in modo indiretto, a raffreddare l’interesse degli agricoltori per il mais: i costi per l’irrigazione, nonostante la citata abbondanza relativa di acqua a nord del Po, non sono trascurabili, specie in taluni anni;al contrario, altre produzioni foraggere possono garantire una maggiore capacità di adattamento a un clima sempre più variabile e rischioso, a minori costi. Peraltro anche le criticità connesse con la possibile contaminazione del prodotto da aflatossine sono connesse con l’andamento climatico, specie quello di fine coltura.

Le implicazioni per la zootecnia e per l’industria mangimistica
In questo contesto, quindi, non v’è dubbio che questa tendenza alla diminuzione delle superfici coltivate a mais in Italia stia portando ad una situazione che sarà strutturalmente diversa rispetto a quella che abbiamo conosciuto in precedenza. Non è facile prevedere a che livello la discesa si arresterà, né se vi potranno essere “recuperi” dovuti a novità tecnologiche che consentano di controllare più efficacemente le problematiche relative alle aflatossine.
Per cambiare una tendenza che si è evidenziata per cause strutturali,è necessario che intervengano altri elementi di cambiamento di natura ugualmente “strutturale”.
Prima di discutere le implicazioni di questa tendenza alla contrazione delle superfici a mais per la zootecnia italiana di qualità, è necessario anche ricordare che una quota non trascurabile di mais viene utilizzato per alimentari i digestori che producono biogas.
Anche questa attività produttiva, infatti,deve essere considerata attentamente quando si vogliano valutare le implicazioni per le filiere zootecniche: come è noto, infatti, specie gli impianti a biogas “più vecchi” possono beneficiare di aiuti sostanziali che hanno modificato, a loro favore, l’equilibrio di mercato, promuovendo indirettamente la produzione di biogas piuttosto che la zootecnia. E questi incentivi hanno “risucchiato” in questa “filiera energetica” una quota considerevole del mais prodotto.
Se da un lato, cioè, la politica agricola ho disaccoppiato gli aiuti su tutte le colture e quindi anche sul mais, dall’altro la politica energetica li ha “riaccoppiati indirettamente” ma in una direzione diversa, creando così condizioni di concorrenza difformi, favorevoli alla produzione di energia e sfavorevoli al mero impiego per l’alimentazione animale. Anche se le norme più recenti sono molto meno favorevoli per la produzione di biogas, è indubbio che lo stock di impianti esistenti rappresenta ancora un dato di assoluto rilievo e continua ad influenzare il mercato italiano del mais, provocando una riduzione della produzione di granella a favore della produzione di insilato per i digestori.
A maggiore ragione, quindi, la forte riduzione delle produzioni italiane di mais ha effetti particolarmente importanti sulla zootecnia italiana, soprattutto quella che riesce a produrre una quota importante del valore aggiunto della nostra agricoltura grazie alle produzioni di qualità, cioè in particolare i nostri formaggi DOP e i salumi DOP ottenuti dai suini pesanti nati, allevati e macellati a livello nazionale, nei territori nei quali l’allevamento è coerente con i vincoli dei relativi disciplinari.

Quali soluzioni?
I contesto che si è venuto a creare sul mercato del mais nazionale potrebbe trovare una risposta, come nei fatti sta trovando, semplicemente con un aumento della dipendenza dall’estero; i bassi prezzi internazionali del mais testimoniano una disponibilità di questa materia prima che è ampia e non presenta problemi di approvvigionamento. Se non fosse per un problema: i già citati prodotti di punta del nostro made in Italy, formaggi e salumi, sono DOP e in quanto tali richiedono l’impiego di una quota maggioritaria di materie prime per l’alimentazione degli animali di origine dei territori specifici delle DOP stesse.
Sicuramente i foraggi, almeno per le bovine da latte, possono rappresentare una risposta, ma solo parziale. Restano i fabbisogni importanti di proteine di origine vegetale, oggi in larghissima parte di provenienza estera, e i cereali per alimentazione animale, in primo luogo il mais.
Proprio sul mais da granella, quindi, si possono immaginare azioni volte a rafforzare le filiere nazionali e locali. E il primo strumento a questo fine è nelle mani delle parti economiche: i contratti di fornitura.
Come già si verifica in alcune altre filiere, infatti, anche nel caso del mais da granella si potrebbero sviluppare contratti di filiera volti, da un lato a garantire una produzione e una disponibilità adeguata di granella di qualità, e dall’altro una remunerazione più sicura, cioè in primo luogo più stabile rispetto alla grande volatilità dei mercati, e in grado di incentivare a sufficienza la produzione nazionale.
Si tratta di una sfida per le filiere zootecniche di qualità e per tutti i soggetti coinvolti, ma i dati e le considerazioni svolte suggeriscono che non c’è più molto tempo da attendere.

Foto: © Gina Sanders – Fotolia.com

Gabriele Canali – Professore di economia ed estimo rurale Università Cattolica