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Paolo De Castro: “Filiera agroalimentare italiana unita a Bruxelles per trattare riforma Pac, definire le regole degli accordi commerciali internazionali e favorire lo sviluppo delle esportazioni”

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Onorevole De Castro (Vice Presidente Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo), l’accordo Omnibus può essere letto in una duplice direzione: come solidificazione di alcuni assi di equilibrio esistenti e come proiezione per la costruzione della Pac del 2020: è stato complicato riuscire a tenere insieme i due livelli?
L’occasione fornita dal Regolamento di revisione del bilancio pluriennale dell’Ue, il Regolamento Omnibus, ci ha dato la possibilità di andare ad intervenire, senza dover attendere la prossima legislatura, su quegli aspetti della PAC attuale che stavano mostrando maggiori criticità. Rispetto alla proposta inziale presentata dalla Commissione, che introduceva poche modifiche, siamo riusciti ad ottenere una vera e propria riforma di medio termine che contiene semplificazioni delle misure di greening, consolidamento delle agevolazioni per i giovani agricoltori, nuovi parametri per la gestione dei rischi e il rafforzamento della posizione degli agricoltori nella filiera agro-alimentare.


Quali sono stati gli assi di equilibrio più difficile da raggiungere?
Come accennato, il Parlamento europeo non si è limitato a lavorare sulle proposte della Commissione, ma ha approfittato dell’occasione per provare a ottenere modifiche della Pac più incisive. La volontà di compiere questo tentativo, che tutto sommato possiamo considerare andato a buon fine, scaturisce dalla consapevolezza che alcune delle criticità presenti nell’attuale regolamentazione sono già evidenti, ma avrebbero potuto essere affrontate solo nella prossima legislatura. Come eurodeputati, abbiamo voluto sfruttare fino in fondo le prerogative dell’Europarlamento previste dalla procedura di co-decisione. L’impresa è stata tutt’altro che semplice. Sia la Commissione, ma soprattutto il Consiglio, all’inizio non mostravano entusiasmo per gli emendamenti proposti dal Parlamento e sicuramente l’accordo più complesso da raggiungere è stato quello sulle misure di mercato. A conferma però, di quanto le misure introdotte a tutela delle OP e delle AOP, fossero non solo necessarie, ma anche equilibrate e in pieno rispetto del diritto della concorrenza, è arrivata proprio nei giorni scorsi una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea.


Quali le proiezioni sulle quali c’è stato maggiore condivisione?
Le modifiche al Regolamento Omnibus sono state l’occasione che aspettavamo da tempo per cercare di risolvere i problemi causati dalla eccessiva burocrazia presente nella PAC attuale. Per questo la parola d’ordine che ha guidato i nostri interventi è sempre stata semplificazione.


La grande sfida della politica agricola europea guarda chiaramente al 2020 e alla costruzione della nuova Pac. Quali dovranno esserne i pilastri?
Se come pilastri intende i punti di riferimento, sono senza dubbio ambiente e cambiamenti climatici da un lato e competitività delle imprese dall’altro, sia in termini di protezione dall’instabilità climatica e dei mercati, sia di remuneratività della parte agricola della filiera.


Quale equilibrio costruire tra gli Stati membri? E tra le diverse fasi della filiera agroalimentare, soprattutto in ottica di confronto con gli altri grandi protagonisti del settore primario?
Gli equilibri tra paesi si costruiscono non solo attraverso la politica agricola, ma attraverso tutte le politiche, anche con un’azione costante a Bruxelles, fatta di contatti, scambi e alleanze. Per quanto riguarda la filiera alimentare ci si attende un cenno dalla Commissione europea che ha aperto una consultazione pubblica su agricoltori e altre parti della filiera. Si dovrebbe però anche provare a uscire dalla conflittualità costante che ha caratterizzato la filiera dell’agroalimentare italiano negli ultimi 10-15 anni. Se non ci si presenta uniti a Bruxelles è difficile portare avanti anche la costruzione di nuovi equilibri con altri paesi.


Che ruolo possono svolgere, in positivo e in negativo, gli accordi commerciali internazionali?
Oggi l’estensione geografica, il volume degli scambi e la loro velocità hanno raggiunto livelli mai sperimentati prima. Il cibo è diventato un fatto globale e questo porta nuovi vantaggi ma anche rischi. Dal primo punto di vista, vengo incrementate le opportunità di export per le nostre imprese e l’offerta alimentare per i consumatori assume proporzioni inedite. Ma questo stato di cose ha anche i suoi svantaggi, uno di questi è la reciprocità degli standard di produzione. Diventano quindi fondamentali gli accordi commerciali, in cui gli standard di produzione sono diventati sempre più centrali. Se fino agli anni novanta, infatti, si discuteva principalmente di dazi e tariffe, oggi si parla di barriere sanitarie e fitosanitarie e di barriere tecniche al commercio.


Come si colloca l’agroalimentare italiano nello scenario del 2020?
L’Italia è l’unico Paese al mondo con 4.965 prodotti alimentari tradizionali censiti, 291 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, ma è anche quello più green con quasi 60mila aziende agricole biologiche in Europa a tutela della biodiversità e della sicurezza alimentare. Il settore agroalimentare rappresenta quindi per l’Italia uno dei principali motori di crescita, e in tal senso è necessario sfruttarne a pieno tutte le potenzialità. Secondo uno studio presentato da Nomisma Agrifood Monitor l’export agroalimentare italiano supererà nel 2017 i 40 miliardi di euro (+6% sul 2016). Sono dati positivi che confermano come il nostro sistema agro-alimentare sia sempre più capace di conquistare quote di mercati internazionali: una vocazione all’export che deve essere ancor più rafforzata in modo da rispondere alla crescente domanda di nostri prodotti in giro per il mondo.


Quali sono i maggiori pericoli che dovranno essere evitati e quali invece le opportunità di crescita che non vanno fatte sfuggire?
Molto rimane ancora da fare per raggiungere i livelli di export toccati da Francia e Germania, il 60% dell’export italiano fa infatti riferimento ad appena 4 regioni: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte, con il Sud del Paese che incide ancora per meno del 20%. Le 4 regioni ‘regine’ dell’export sono favorite dalla presenza di imprese più dimensionate, reti infrastrutturali più sviluppate, nonché produzioni alimentari maggiormente “market oriented”.

Salvatore Patriarca