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Luzzana (Skretting): “Produzione ittica, autosufficienza poco realistica, ma i mangimi italiani possono guadagnare ancora spazio”

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La produzione di mangimi per acquacoltura è in continua crescita da alcuni anni. Nel 2018 ha fatto segnare un aumento del 5% rispetto all’anno precedente raggiungendo la quota di 146 mila tonnellate. Ma qual è, al di là dell’aspetto quantitativo, il ruolo strategico della mangimistica in questo comparto zootecnico? Mangimi&Alimenti ne ha parlato con Umberto Luzzana, esperto di Nutrizione in acquacoltura di Skretting Italia.

L’acquacoltura è uno dei settori zootecnici più in espansione negli ultimi anni. I mangimi per pesci prodotti in Italia riescono a soddisfarne le richieste?

Il mercato italiano dei mangimi per il pesce d’allevamento è dominato da player locali. C’è una quota non insignificante di aziende estere che esportano il proprio prodotto e due gruppi verticalmente integrati. Il mercato è comunque globale, tant’è che negli ultimi anni vediamo affacciarsi al nostro mercato aziende estere che non vi si erano rivolte in precedenza, e questo dimostra come il settore dell’acquacoltura del nostro Paese sia una meta davvero ambita. È un settore in moderata crescita, soprattutto sul fronte degli allevamenti in mare, nel quale le aziende italiane devono fronteggiare la presenza di diversi competitor ma che, sostanzialmente, vede la prevalenza di produttori locali. E in futuro difficilmente ci si allontanerà da questo quadro di rapporti di forza.

Quali sono gli ingredienti principali per la nutrizione del pesce d’allevamento?

Tradizionalmente erano le farine e gli oli di pesce. Queste restano delle materie prime importanti per la formulazione dei mangimi visto il loro profilo nutrizionale ma accanto a queste si sono affermati nuovi ingredienti. Pertanto le farine e gli oli di pesce si sono gradualmente trasformati da ingredienti di massa a ingredienti strategici, utilizzati per caratteristiche specifiche. Sono considerati ancora ottime sostanze per i nutrienti che contengono, perché sono digeribili, appetibili, ampiamente biodisponibili e in definitiva perché rispondono bene alle esigenze e ai fabbisogni nutrizionali dei pesci. Ma anche le nuove materie prime hanno dei valori aggiunti. In primo luogo quelle di origine vegetale, che hanno un considerevole contenuto proteico, come le leguminose, ad esempio la soia, o i glutini dei cereali come mais e frumento. Ricordiamoci, infatti, che la maggior parte delle specie allevate in Italia sono carnivore e quindi la loro alimentazione richiede un profilo nutrizionale basato su proteine ed energia. Più di recente sono state introdotte le proteine animali trasformate, un prodotto interessante anche in termini di economia circolare, e negli ultimissimi anni le farine di insetti e alghe. Tutte le nuove materie prime hanno il vantaggio di essere risorse potenzialmente meno limitate di quelle tradizionali. Se fino a poco tempo fa la spinta al tentativo di affrancarsi dall’utilizzo prevalente di farine e oli di pesce era dettata da ragioni ambientali (sono comunque prodotti ricavati da pesce selvatico per nutrire pesci allevati) negli ultimi dieci anni il quadro è cambiato. L’urgenza non arriva più dalla difesa della sostenibilità ma da ragioni di disponibilità e approvvigionamento: la produzione di pesce da allevamento è destinata ad aumentare anche in ragione della maggiore popolazione mondiale. Ed ecco che le nuove materie prime potranno guadagnare sempre più spazio, senza dimenticare che – anche grazie ai piscicoltori – più del 30% delle farine di pesce sono ricavate dai sottoprodotti del pesce per il consumo umano e quelle derivanti da pesca industriale provengono per lo più da stock ittici gestiti correttamente e certificati.

Trota, orata e spigola sono le specie più prodotte in Italia. Ci sono delle differenze specifiche per i prodotti destinati alle diverse specie o ai pesci d’acqua dolce rispetto a quelli d’acqua marina?

Ogni specie ha i suoi fabbisogni, e dunque richiede un proprio mangime dal profilo nutrizionale specifico. Orata e spigola sono carnivore e necessitano di un adeguato apporto di proteine. Ma tra le diverse specie carnivore ci sono comunque fabbisogni diversi: l’apporto di proteine e acidi grassi varia per le specie di acqua dolce che sono più capaci di quelle marine di desaturare e allungare gli acidi grassi. Inoltre ci sono differenti gradi di efficienza nell’utilizzo dell’energia, con il salmone e la trota ma anche la spigola che, a differenza per esempio dell’orata, rispondono meglio ai mangimi con più calorie.

Qual è stato il contributo dato negli ultimi anni dalla ricerca scientifica alla mangimistica per la piscicoltura? E su cosa sta lavorando la ricerca?

Molte risorse sono state dedicate all’individuazione di alternative alle materie prime tradizionali, come dimostrano le ultime conquiste con le farine di insetti e alghe. Ma molta attenzione è stata dedicata anche ad aree di ricerca meno direttamente applicative: la genomica, l’interazione alimentazione/espressione genica, lo studio del microbiota. Alcune aree sono fondamentali in chiave di lotta all’antibiotico-resistenza (il mangimista può avere un ruolo centrale in questo senso), come ad esempio la determinazione dei fabbisogni nutrizionali di base per essere certi di dare alimenti bilanciati e adeguati ai fabbisogni. Se ben nutrito, infatti, è più facile che un pesce stia bene e dunque più difficilmente si ammalerà. Un’altra è quella degli alimenti funzionali, con cui si migliorano le difese immunitarie e si aiutano gli animali a fronteggiare gli attacchi dei patogeni, ad avere una migliore salute intestinale, barriere esterne più forti come la cute o le branchie. Infine, al confine tra la conduzione degli allevamenti e la mangimistica, è la gestione dell’alimentazione: capire quanto mangime dare e come darlo, con che velocità, come distribuirlo nello spazio senza che venga sprecato e senza essere in quantità limitate, che sia quindi dato in modo tale che tutti gli animali possano avere le stesse razioni. L’area degli ingredienti funzionali è una di quelle in cui la ricerca è più attiva e anche quella relativa alla gestione dell’alimentazione sta ricevendo sempre maggiore attenzione anche con l’utilizzo dei big-data e lo sviluppo di modelli predittivi. Più indietro rispetto al passato resta il settore della determinazione dei fabbisogni nutrizionali che è invece fondamentale perché non conosciamo tutti i fabbisogni nutrizionali, considerando anche che ci sono molte specie diverse allevate nel mondo.

In che modo la nutrizione riesce a incidere sul gusto del prodotto ittico?

Le evidenze scientifiche non sono univoche. Naturalmente i fattori nutrizionali influiscono sulle qualità organolettiche del pesce, ad esempio gli aminoacidi e le molecole complesse responsabili del gusto dolce, amaro o salato. Anche altri elementi, però, possono pesare: il tipo di allevamento, la taglia del pesce, così come le condizioni in cui il pesce viene trasformato in prodotto per il consumo alimentare, ad esempio la freschezza e il mantenimento della catena del freddo. Relativamente alla piscicoltura, il pesce allevato può fornire dei vantaggi in termini di gusto rispetto a quello selvatico perché si è in grado di evitare i sapori più sgradevoli. I mangimi sono infatti sottoposti a controlli molto accurati che sono anche garanzia della gradevolezza del prodotto finale.

È possibile immaginare un’autosufficienza proteica ittica tutta italiana? In altre parole, è lontano il giorno in cui si potrà consumare pesce tutto italiano, pescato o d’allevamento?

In Italia il consumo di pesce è alto: la media è di 29 Kg pro capite l’anno mentre la media europea è di 22-23 kg. Ma abbiamo un deficit nella bilancia commerciale. Il 6 aprile è stato il giorno in cui abbiamo smesso di consumare pesce allevato e prodotto in Italia cominciando, dal giorno dopo, a mangiare solo pesce importato. Lo spazio per migliorare l’autoapprovvigionamento c’è e l’acquacoltura può fare certamente la sua parte. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che ci troviamo in un mercato globale, sebbene il marchio italiano della piscicoltura sia virtuoso e appetibile: il consumatore riconosce il valore del pesce allevato nella Penisola rispetto a quello importato ed è consapevole delle differenze di prezzo. Pertanto l’autosufficienza piena mi sembra difficile da realizzare ma spazi per aumentare la quota del prodotto italiano ce ne sono. Il mercato è comunque recettivo alla differenziazione: se da un lato al pesce italiano si continuerà a dare valore, dall’altro continuerà a esserci spazio per il pesce importato che costa meno, e che quindi potrà soddisfare le richieste di alcuni consumatori, ma anche per il pesce di mare che offre una maggiore varietà di specie dell’acquacoltura. In questo quadro merita segnalare un progetto che Skretting ha sviluppato insieme ai propri clienti, volto a comunicare il valore del pesce allevato in particolare nazionale. Il progetto, chiamato “Acqua in Bocca”, ha già prodotto come primo risultato un kit di comunicazione nella forma di una serie di domande e risposte che ha l’ambizione di combattere le fake news relative all’acquacoltura e di fare un po’ di corretta informazione. Il kit può essere scaricato gratuitamente dal sito di Skretting Italia a questo link. Comunicare correttamente e raggiungere i consumatori è fondamentale per sostenere il prodotto da acquacoltura nazionale, e il progetto “Acqua in Bocca” è un piccolo ma importante segnale che quando la filiera collabora nel suo insieme è possibile raggiungere risultati importanti.

Vito Miraglia