Il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) è un trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico, volto a instaurare il libero scambio di merci e servizi tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti. In particolare, l’accordo punta ad abbattere le “barriere tariffarie” – i dazi doganali, ossia le tasse da pagare per importare un prodotto – e quelle “non tariffarie” – meccanismi di regolamentazione che vengono istituiti in un paese, ma finiscono per influenzare il commercio internazionale – tra l’Europa e gli Usa, per aumentare i flussi commerciali tra le due sponde dell’oceano Atlantico. Il negoziato è partito nel 2013, ma finora le parti in causa non sono riuscite ad arrivare a un’intesa. Il professor Alessandro Banterle, docente di “Economia e politica alimentare” presso l’Università degli Studi di Milano, spiega i motivi del mancato accordo e le conseguenze per il comparto agroalimentare italiano.
Professor Banterle, quali sono le principali ragioni che finora hanno impedito il raggiungimento di un accordo?
Secondo alcuni economisti, il Ttip rappresenta “il più grande negoziato bilaterale effettuato finora”. Questo suggerisce che il volume d’affari su cui vertono le trattative è molto elevato: si parla del 30% del commercio globale e di 4,3 miliardi di dollari giornalieri. Ma quando si ha a che fare con negoziati di questo genere, è difficile portare a termine un accordo, perché gli interessi che entrano in gioco sono molteplici. In questo caso si parla delle più grandi aree industrializzate del mondo, e nessuna delle due parti vuole perdere. Entrambi i contraenti cercano di portare a casa il miglior risultato possibile, rendendo complessa la negoziazione. Inoltre, l’ambito di applicazione del Ttip coinvolge diversi comparti economici: non riguarda soltanto le merci e i servizi, ma anche gli investimenti e gli appalti pubblici. Di conseguenza, giungere a una visione comune non è semplice.
La firma del trattato è ostacolata anche da due fattori: il cambio al vertice della presidenza americana e una sorta di crisi politica che serpeggia nell’Unione Europea, sfociata nella Brexit. Per quanto riguarda il primo punto, va evidenziato che il Ttip è stato sostenuto dal presidente Obama, che vi scorgeva la possibilità di far crescere ulteriormente l’economia statunitense. Tuttavia, la difficoltà di conciliare posizioni contrastanti ha impedito di raggiungere un accordo prima della fine del mandato, e le imminenti elezioni ostacolano ulteriormente la possibilità di giungere a una conclusione positiva. I due candidati alla presidenza non si sono, infatti, espressi a favore del progetto. Anzi, Donald Trump ha dichiarato di essere contrario al Ttip. Ma anche la candidata democratica Hillary Clinton, che prima era a favore, ha fatto un passo indietro per avvicinarsi all’elettorato di sinistra che non vede di buon occhio questo negoziato. Anche alcuni paesi europei, però, si mostrano scettici nei confronti dell’accordo. A essere contrari sono soprattutto associazioni come Greenpeace e i sostenitori dei prodotti tipici del territorio. In particolare, la Francia si è espressa contro il trattato, mentre lo scorso agosto il vice cancelliere tedesco, Sigmar Gabriel, ha annunciato il fallimento dell’accordo.
Ora bisogna vedere i risultati del 15° ciclo di negoziati che si terrà a ottobre. A mio avviso, bisogna attendere l’esito delle elezioni americane: a seconda di chi sarà il vincitore, le trattative verranno riprese in maniera favorevole, oppure saranno abbandonate.
Lei ritiene che serva un trattato per la regolamentazione commerciale euroatlantica? E su quali basi dovrebbe essere fondato?
Attualmente i commerci sono regolati da accordi siglati nell’ambito della World trade organization (Wto), che hanno permesso di abbassare molte barriere tariffarie e non tariffarie, facilitando il commercio internazionale. Ma esistono ancora diverse barriere, come le normative nazionali relative all’etichettatura e alla sicurezza alimentare. A mio avviso, serve un trattato di regolamentazione commerciale euroatlantica solo se si tratta di un “buon trattato”. Serve un accordo equo, che garantisca la trasparenza e che faciliti il commercio internazionale, senza arrecare vantaggi a una sola parte. Tuttavia, è difficile raggiungere un’intesa quando ci sono così tanti interessi economici in gioco. Ritengo, pertanto, che più che un trattato commerciale unico, ne servirebbero diversi specifici, ognuno dei quali dovrebbe regolamentare un settore che presenta ancora forti barriere tariffarie.
Quali sarebbero i vantaggi dell’approvazione del Ttip per il comparto agroalimentare italiano?
Il principale beneficio derivante dalla stipula del Ttip sarebbe rappresentato da un aumento delle esportazioni dei prodotti italiani negli Stati Uniti. Per l’agro-alimentare i principali partner commerciali dell’Italia sono europei, ma tra i paesi extracomunitari il primo sbocco di vendita del Made in Italy è rappresentato proprio dagli Usa, che dal Belpaese comprano soprattutto vino, olio d’oliva, formaggi e pasta. Attualmente esistono ancora diverse barriere tariffarie e non tariffarie, per cui raggiungere un accordo con gli Stati Uniti vorrebbe dire favorire l’esportazione dei prodotti italiani in questo grande mercato, che a sua volta è formato dai mercati dei differenti stati americani.
Quali, invece, gli eventuali pericoli per l’agroalimentare italiano?
Gli eventuali svantaggi, riguardano invece le importazioni. Dagli Usa l’Italia importa principalmente le materie prime agricole, in particolare cereali e soia. In base all’accordo, l’eliminazione o l’abbassamento delle barriere tariffarie aumenterebbe ulteriormente la vendita di questi prodotti in Italia, determinando un generale calo dei prezzi delle commodities nel territorio nazionale. Questo può rappresentare un elemento positivo per chi deve acquistarle, come i produttori di mangimi, ma pone in condizioni di svantaggio i piccoli imprenditori agricoli, che non hanno la possibilità di stare al passo con i grandi produttori americani. Negli Stati Uniti, infatti, l’agricoltura è molto più competitiva di quella europea e, in particolare, di quella italiana. Un altro problema è rappresentato dalla qualità dei semilavorati che vengono utilizzati nell’industria alimentare. Questi prodotti negli Usa vengono realizzati a costi inferiori e, di conseguenza, hanno una qualità più bassa di quella dei prodotti realizzati nel Belpaese. L’abbassamento delle barriere potrebbe quindi favorire la sostituzione dei semilavorati italiani con quelli americani, causando il peggioramento della qualità dei prodotti alimentari italiani.
Ci sono poi quattro aspetti da considerare. Innanzitutto quello dell’importazione della carne: negli Stati Uniti è autorizzato l’impiego di ormoni nell’allevamento del bestiame. In Europa, invece, non è permesso in base al “principio di precauzione” – secondo cui bisogna dimostrare che un prodotto non provochi danni alla salute prima di poterlo utilizzare – e alla sua normativa in materia di sicurezza alimentare. Si tratta, pertanto, di due posizioni difficili da conciliare. Il secondo problema riguarda l’elevato impiego di antibiotici negli allevamenti avicoli statunitensi. Il terzo, invece, si riferisce al valore del marchio “denominazione di origine protetta”, che negli Usa non viene riconosciuto. L’Italia, insieme alla Francia, può vantare un ingente numero di prodotti Dop, che hanno ottenuto questo riconoscimento non solo grazie alla loro qualità, ma anche a tutela del territorio, della tradizione e dell’economia locale. Gli Usa, invece, considerano questa denominazione come un marchio privato, per cui non ne riconoscono il valore. Anche in questo caso, le posizioni delle due parti sono molto lontane. Infine, il quarto elemento riguarda la legislazione relativa agli organismi geneticamente modificati (Ogm): negli Stati Uniti ne viene fatto ampio uso, perché lì vige il principio che se non esistono prove del fatto che questi prodotti possano provocare danni alla salute, ne è ammessa la commercializzazione. In Europa, invece, vige il suddetto “principio di precauzione”, per cui la regolamentazione relativa all’impiego degli Ogm è molto più complessa e risulta distante da quella statunitense. Per cui, o si stralcia questo punto dal trattato, o è difficile che si arrivi a un accordo.
Quali potrebbero essere le conseguenze del fallimento del Ttip per il comparto agroalimentare italiano?
Se il trattato non dovesse essere approvato, si continuerà a fare riferimento all’attuale normativa, che affida al Wto il compito di regolamentare le relazioni internazionali. In pratica, la situazione rimarrebbe così com’è. Tuttavia, in un mondo globalizzato, potrebbe non essere così semplice. Inoltre, l’Europa potrebbe finire per restare indietro rispetto ai paesi dell’aria asiatica, che invece hanno già stretto accordi con gli Usa. Una possibile soluzione potrebbe essere rappresentata dalla stipula di accordi negoziali più piccoli a livello settoriale. Si potrebbe valutare l’idea di stringere trattati bilaterali, relativi a settori specifici, non solo con gli Stati Uniti, ma anche con altre economie emergenti come quella indiana e quella cinese. L’Italia, in particolare, deve impegnarsi a migliorare la sua presenza all’estero. Negli ultimi anni le esportazioni di prodotti alimentari sono aumentate, ma ci sono paesi che esportano di più, pur non avendo la reputazione di cui godono i prodotti italiani.
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Nadia Comerci