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Elena Cattaneo: “Tecnologia e innovazione, il futuro dell’agricoltura è il metodo integrato”

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Sviluppo, ricerca scientifica, impatto ambientale e agricoltura biologica (con la proposta di legge in discussione al Senato) sono alcuni dei temi al centro del dibattito sul futuro del settore primario in Italia e in Europa. Mangimi&Alimenti ne ha parlato con la senatrice a vita Elena Cattaneo, docente all’Università Statale di Milano.


Gentile senatrice, il disegno di legge sull’agricoltura biologica in esame al Senato ha ricevuto diverse critiche da docenti universitari, agronomi e imprenditori. Quali sono gli aspetti più controversi della proposta di legge?

Ho avuto modo di ascoltare o leggere molti degli interventi che si sono tenuti alla Camera, ho letto lo scritto degli studiosi che si sono rivolti al Parlamento criticando l’impostazione e i contenuti del DDL, così come sono a conoscenza dei contenuti dell’ulteriore scritto di un altro gruppo di specialisti che invece ritiene di dover sostenere la proposta. Con un po’ di studio, verifiche e logica non è difficile identificare i tanti elementi deboli della narrazione che ispira il testo del DDL, o le fallacie logiche così come l’insufficienza della documentazione di chi ritiene che si tratti di una buona legge quella che riconosce “valore” tout court all’agricoltura bio, quasi esaltandone l’arretratezza scientifica e l’impostazione dogmatica, nel momento in cui equipara ad essa l’agricoltura biodinamica. Pratica, quest’ultima, nota per i riti esoterici in cui, per aumentare la fertilità del suolo tramite le “forze cosmiche”, si usano corni di vacca riempiti di letame, topi spellati e vesciche di cervo con fiori d’achillea (preparati regolarmente elencati nei disciplinari).

Soprattutto, trovo molto parziale l’impostazione di questo disegno di legge, che lascia fuori da ogni considerazione legislativa tutto ciò che non è bio, arrivando perfino a prevedere linee di finanziamento della ricerca riservate solo al biologico e alla pratica stregonesca della biodinamica ad essa equiparata. Andrebbe piuttosto promossa la ricerca a tutto campo per capire quale metodo sia scientificamente migliore per efficienza, resa e difesa dell’ambiente e in base a questo decidere su cosa scommettere e cosa finanziare.

Al di fuori da ogni narrazione, è l’agricoltura integrata che, nella realtà, rappresenta la fetta più grossa del settore e grazie all’uso, appunto, “integrato” di tutte le tecnologie disponibili per produrre al meglio, garantisce cibo accessibile a tutti, come riconosce anche una mozione approvata alla Camera nel febbraio scorso, sull’uso responsabile degli agrofarmaci. Per critiche più circostanziate su aspetti specifici del DDL 988, rimando al documento analitico firmato da oltre 400 tra studiosi, agronomi, docenti, imprenditori e cittadini comuni, inviato ai senatori delle commissioni che stanno approfondendo la legge e disponibile pubblicamente sul sito Agrarian Sciences al seguente link: https://agrariansciences.blogspot.com/2019/01/testo-per-gli-onorevoli-membri-del.html. Un approfondimento supportato da un’ampia letteratura scientifica, che “illumina” anche il lettore non esperto sugli aspetti controversi della proposta.


Lei ha definito “ingannevole” la comunicazione sull’agricoltura biologica. In quali termini sono arrivate al consumatore delle informazioni parziali?

Il marketing del biologico sfrutta il claim “naturale = buono”, che però contiene una serie di contraddizioni: in primo luogo, va ricordato che la maggior parte dei prodotti dell’agricoltura di cui ci nutriamo è frutto di modifiche e selezioni operate nel corso dei millenni dall’uomo sulla natura per ricavare vegetali e frutti commestibili. Inoltre, spesso il bio tende a promuovere i propri prodotti a spese di quelli altrui. Ne è un esempio la campagna “Cambia la Terra“, promossa da Federbio, che raggruppa molti portatori d’interesse del mondo dell’agricoltura biologica e biodinamica: in uno dei suoi slogan si dichiara falsamente che chi sceglie l’agricoltura integrata “inquina l’economia e il pianeta”, proponendo il biologico come unica via per la sostenibilità. Ma come ci si può affidare a un metodo che certifica il processo e non il prodotto, rifiutando pregiudizialmente alcune innovazioni, anche quando chili di dati e prove scientifiche dimostrano che sono meno dannose? Il futuro dell’agricoltura, ad oggi, non può che passare per il metodo integrato, che, in maniera laica, integra tutti gli strumenti e le tecnologie innovative che la ricerca e la pratica mettono a disposizione per la protezione e il miglioramento della resa delle colture, secondo uno schema razionale, per produrre quanto più possibile usando le risorse a disposizione nel modo più efficiente e rispettoso dell’ambiente.


Il futuro dell’agricoltura e dell’agroalimentare italiano non può fare a meno dell’innovazione. Di quali tecnologie ha più bisogno il settore primario?

Dai molti incontri con studiosi, specialisti, imprenditori del settore (integrato e biologico) emerge chiaramente che bisogna sviluppare tecnologie per poter intervenire in maniera precisa e mirata dove serve, con un approccio specifico caso per caso, tenendo conto che ogni campo e ogni coltura ha le sue peculiarità, in modo da migliorare sempre di più le rese e attenuare sempre di più l’impatto sull’ambiente. Gli agricoltori oggi sono una miniera straordinaria di competenze e visione, ma questa loro capacità scientifica e imprenditoriale è da decenni tenuta a freno da illusioni che danneggiano il Paese e il futuro. Oggi, tecnologie e conoscenze inimmaginabili anche solo dieci anni fa permettono di risparmiare spesa e fatica, utilizzando meno prodotti fitosanitari e meno mezzi meccanici, con tutto quel che ne consegue in termini di diminuzione delle emissioni inquinanti. Anche il miglioramento genetico delle colture è funzionale a questo scopo, permettendo di ottenere piante resistenti a condizioni difficili di clima e di terreno e/o a patologie e parassiti che minacciano, tra le altre, alcune varietà tipiche della tradizione gastronomica italiana, come il riso Carnaroli o il pomodoro San Marzano.


Con la recente sentenza della Corte di Giustizia europea sulle nuove tecniche di mutagenesi la ricerca scientifica rischia di subire un nuovo stop. Quali interventi sono necessari per far ripartire la ricerca in agricoltura?

Dal punto di vista legislativo, in Italia la sperimentazione in campo aperto, a scopo di ricerca, di varietà geneticamente migliorate che rientrano nella definizione di “organismi geneticamente modificati” non è vietata, ma resa nei fatti impossibile per via burocratica: non sono stati emessi i protocolli, né individuati i siti necessari. C’è una sostanziale impasse per cui da un lato le istituzioni non prendono questi provvedimenti, considerati impopolari, dall’altro gli studiosi rinunciano a presentare richieste di sperimentazione, sapendo che, come nel caso del professor Eddo Rugini dell’università della Tuscia, le colture cui hanno dedicato tempo, fatica, lavoro, anni di ricerca possono finire “in fumo”, letteralmente, per la mancanza di alcune autorizzazioni di legge. Se la comunità scientifica sollecitasse in maniera forte, con voce unitaria, le istituzioni a prendere tali provvedimenti, in nome della libertà di ricerca su ogni forma di modifica genica, che si tratti di OGM o delle nuove biotecnologie che usano il genome editing, forse almeno l’impasse si sbloccherebbe, in un senso o nell’altro. Abbiamo bisogno di entrambi: se per una pianta si può immaginare l’impiego del genome editing, per altre (penso al mais) la tecnologia OGM è ancora essenziale. Il paradosso è che importiamo ciò che non è consentito coltivare (e senza il quale non esisterebbe Made in Italy) e mangiamo ciò che impediamo ai nostri ricercatori di studiare.


Scienza e antiscientismo nel dibattito contemporaneo sembrano avere la stessa legittimità. Questa è una profonda distorsione di percezione rispetto al ruolo stesso svolto dal sapere scientifico per l’evoluzione dell’umanità. Quali sono, in relazione alle tematiche dell’alimentazione, della sicurezza alimentare e della produzione di cibo, le azioni principali che bisognerebbe mettere in pratica per definire uno spazio di dibattito pubblico proficuo?

Alcune tecnologie, alcuni fenomeni, possono certamente ispirare, in persone che non hanno competenze specifiche in materia, dubbi e paure, ma è parte del ruolo sociale degli studiosi – dopo aver indagato, seguendo il metodo scientifico – ottenere prove e trasmetterle ai cittadini, in maniera semplice e comprensibile, ma sempre veritiera. Soprattutto, però, credo si debbano separare con chiarezza i fatti, i dati e le prove, accessibili e verificabili da chiunque, da opinioni che, per quanto legittime, possono creare danni a volte irreparabili se confuse con i dati di realtà. Si veda, da ultimo, la gestione dell’emergenza Xylella in Puglia, dove le prove raccolte e rese pubbliche dalla comunità scientifica secondo un metodo condiviso, che dimostravano l’importanza di un intervento tempestivo nelle zone colpite, sono state non solo ignorate ma contrastate attivamente, a favore di narrazioni non verificate e miranti addirittura ad accusare gli stessi scienziati di aver diffuso la patologia per loschi fini di interesse, peraltro mai dimostrati. Il tempo perso nel mettere sotto processo la scienza, anziché ascoltarne il grido di allarme, è sotto gli occhi di tutti: la stima corrente dei danni fatta da Coldiretti è di 1,2 miliardi di euro. Centinaia di migliaia di ulivi, ormai morti, dovranno essere sradicati, e il rischio è che il batterio, in forma mutata, si diffonda anche ad altre colture, mettendo a rischio l’agricoltura non solo italiana ma di tutta Europa.


Foto: © 2017 Fotografico, Senato della Repubblica

Vito Miraglia