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Allevamento animale e ambiente

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carne bovina

Aumento demografico, urbanesimo e richiesta di cibo
A livello mondiale l’incremento demografico da un lato (7 miliardi oggi e più di 9 nel 2050) e l’urbanesimo dall’altro lato (nel 1900 il 20% della popolazione viveva in città; oggi oltre il 50%; nel 2050 il 70%!) pongono pressante il problema dell’approvvigionamento alimentare. Considerando poi che, sempre a livello mondiale, la domanda di alimenti di origine animale (carne, latte e derivati, uova, pesce) è in continuo aumento ed è fortemente correlata con la disponibilità economica della popolazione, disponibilità che da anni sta ormai aumentando notevolmente in molti Paesi del Sud ed Est del mondo, è evidente che l’agricoltura in genere e la zootecnia in particolare rivestono un ruolo cruciale per il futuro del pianeta.

Mission di agricoltura e zootecnia
1°: produrre cibo (di origine vegetale e animale). 2°: difendere l’ambiente. Da migliaia d’anni l’uomo coltiva i campi e alleva gli animali per ricavarne cibo. La zootecnia trasforma proteine e fibre vegetali in proteine animali di elevato valore biologico. Ricordiamo che il regno animale è caratterizzato dall’assenza di fibra (l’elemento che limita la digeribilità) e quindi fornisce alimenti di elevatissimo valore nutritivo, particolarmente ricchi di aminoacidi e acidi grassi essenziali, minerali, vitamine.
Per produrre cibo l’agricoltura e la zootecnia hanno bisogno di acqua e suolo: risorse oggi limitate e in contrazione.

Il consumo di suolo, vero problema!
Per anni, anche recentemente, in Lombardia scomparivano, ai fini agricoli o naturali e paesaggistici, 10 ha di suolo al giorno (pari a circa 13 campi di calcio regolamentari). Dove? Soprattutto in pianura e nei fondovalli alpini. Nelle zone collinari e montane si assiste invece, da anni, al progressivo abbandono di prati e pascoli. Risultato: sempre meno suolo coltivabile in pianura e scomparsa delle zone aperte in collina e montagna a favore del bosco o, peggio ancora, di fenomeni come erosione e frane. Adesso finalmente i politici hanno riconosciuto la gravità del problema e stanno mettendo in atto normative che regolamentano e limitano l’utilizzo di suolo agricolo a fini costruttivi vari: strade e autostrade, parcheggi, case e palazzi, capannoni, centri commerciali, ecc. Basta guardare una carta geografica della Lombardia per rendersi conto di quanto suolo “impermeabilizzato” abbiamo creato. Con conseguenti esondazioni dei fiumi quando piove un po’ più del solito, perdita di biodiversità (come costruire dei “corridoi ecologici” in mezzo alle case, le industrie e i capannoni?) e minor possibilità di sottrarre carbonio dall’aria e ridurre così l’effetto serra che sta determinando i pericolosi cambiamenti climatici attuali.
Dobbiamo quindi esser grati all’agricoltura che, assieme alle Aree Protette (parchi ecc.) garantisce zone verdi e il mantenimento del suolo e della sua insostituibile funzione. Rispetto alle Aree Protette l’agricoltura ha poi il vantaggio di fornire cibo, e un equilibrio tra le due tipologie di territorio è la soluzione migliore. Quindi, non conflitto tra parchi e agricoltori (come è stato per anni), ma collaborazione e sinergia per difendere un bene, il suolo, che va assolutamente tutelato nell’interesse di tutti, cittadini per primi.
Se poi una mono-rotazione di mais è penalizzante per la biodiversità, e obiettivamente lo è, si possono studiare e mettere in atto altre modalità produttive (rotazioni, prati, erbai, ecc.) più consone alla difesa della naturalità, senza però che l’azienda agricolo-zootecnica sia economicamente penalizzata, perché la sostenibilità ambientale non può prescindere dalla sostenibilità economica. Se un’azienda, una stalla va in rosso e la cosa si prolunga negli anni, chiude. Il rischio allora è che il suolo o parte di esso venga destinato ad altro (es. edificabile) e che altro suolo venga così perduto. Ed è una perdita irreversibile, perché una stalla che chiude verosimilmente non riprenderà più l’attività zootecnica.

La zootecnia nel mondo
La zootecnia a livello mondiale ha una rilevanza economica limitata, ma una grande valenza sociale e politica. Essa rappresenta il 40% dei prodotti agricoli grezzi, impiega 1,3 miliardi di persone e costituisce il sostentamento per un miliardo di poveri. Gli alimenti di origine animale costituiscono mediamente 1/3 delle proteine ingerite dall’uomo.
La superficie a pascolo rappresenta il 26% delle terre non coperte da ghiaccio. Quella destinata alle colture da “feed” (alimenti zootecnici) costituisce il 33% delle terre coltivabili. In totale la zootecnia occupa il 30% di tutte le terre non ghiacciate e il 70% delle terre agricole.
L’incremento demografico ed economico sta facendo lievitare la domanda di prodotti di origine animale, mentre la globalizzazione ne aumenta fortemente il loro commercio. Tra il 2000 e il 2050 si prevede che la produzione mondiale di carne aumenti più del doppio: da 229 a 465 milioni di ton. Quella di latte da 580 a 1043 milioni di ton. L’impatto ambientale per unità di prodotto deve quindi dimezzarsi per non aumentare il rischio odierno di danno ambientale. Chiaramente, per diminuirlo, la riduzione dell’impatto ambientale dovrà essere maggiore del 50%.
La zootecnia a livello mondiale sta profondamente cambiando sia tecnicamente che geograficamente.
Il pascolo occupa ancora vaste aree, ma gli allevamenti intensivi sono in forte aumento.
Gli allevamenti stessi si stanno spostando anzitutto dalle zone rurali a quelle urbane e peri-urbane (per avere uno sbocco di mercato più facile e remunerativo) e poi verso le zone dove sono più facilmente praticabili le produzioni di colture che costituiscono alimenti zootecnici o dove questi ultimi possano essere facilmente e direttamente importati.

Valori assoluti e valori relativi
Le statistiche e i numeri devono sempre essere desunti da fonti affidabili e letti con attenzione. L’esempio classico è che se Tizio mangia due polli e Caio zero, i due mangeranno in media 1 pollo a testa. Ma Tizio sarà contento, Caio un po’ meno…. Così è vero che in media al mondo gli alimenti di origine animale apportano il 37% delle proteine totali della dieta, ma nei Paesi a economia avanzata il loro apporto è del 56%, in quelli in via di sviluppo (PVS) solo del 29%.
Ancora: si avrà meno metano (un gas a forte effetto serra) per kg di latte prodotto da una bovina da 40 litri di latte al giorno che non da due bovine da 20 litri al giorno. Queste ultime, in un anno, produrranno più di una volta e mezza il metano prodotto dalla vacca più produttiva.
Ciò si deve essenzialmente al fatto che gli animali (come noi del resto) mangiano anzitutto per mantenersi e convertono in carne, latte o uova solo la quota di alimento che eccede i fabbisogni di mantenimento. Quest’ultimo quindi è un costo fisso da ammortizzare su un livello produttivo il più alto possibile e all’aumentare del livello di ingestione alimentare (2, 3 o 4 multipli di mantenimento), aumenta la quota di produzione e l’incidenza della quota di mantenimento si abbassa sempre più.

Zootecnia e ambiente
È in atto un cambiamento tra le specie allevate: aumentano i monogastrici (pollame e suini, allevati soprattutto in allevamenti intensivi) a scapito dei ruminanti (bovini, ovini, caprini) allevati in modo estensivo (brado o semibrado). Ciò comporta una maggior efficienza dell’allevamento, con conseguente riduzione della terra necessaria (fatto, questo, positivo). Gli allevamenti piccoli ed estensivi rischiano di essere marginalizzati, a meno che non aumentino a loro volta l’efficienza di produzione: non si tratta di competere con quelli intensivi che possono disporre di input economici e tecnici molto superiori, ma di migliorare comunque le tecniche di allevamento e il livello produttivo affinché ci sia effettivamente un ritorno in termini di autoconsumo e possibilmente anche di vendita.
La concentrazione degli allevamenti e dei capi in piccole aree comporta indubbiamente forti rischi ambientali e aumenta la competizione della zootecnia con altri settori, per fattori limitanti quali la terra, l’acqua e le risorse naturali in genere.
Tuttavia sarebbe perlomeno ingenuo se non in malafede pensare che l’umanità di oggi e di domani possa essere nutrita con alimenti derivanti solo da sistemi estensivi: torneremmo indietro di secoli e gli alimenti ad alto valore biologico, quali quelli di origine animale, tornerebbero come un tempo ad essere appannaggio quasi esclusivo della classe più abbiente.
Di fatto gli animali più produttivi sono quelli che impattano meno a livello ambientale, per unità di prodotto. L’abbiamo visto per il metano (un gas a effetto serra) e lo stesso vale per l’azoto: l’efficienza di utilizzazione dell’azoto alimentare aumenta (e parallelamente la sua escrezione diminuisce) all’aumentare dell’efficienza lattea, cioè dei kg di latte prodotti per ogni kg di sostanza secca ingerita.
Ecco perché è corretto somministrare, oltre alla fibra, anche amido alle vacche da latte, per massimizzarne la produzione, compatibilmente con il loro livello genetico, e ridurre l’impatto ambientale per kg di latte. Per la carne bovina il discorso è un po’ diverso, come vedremo più avanti.

Un cambio culturale, senza radicalismi imposti
L’evidente disparità tra ricchezza e disponibilità di risorse in genere (cibo compreso) tra una minoranza e la maggioranza della popolazione del pianeta, porta a tensioni a vari livelli e pone interrogativi sulla sostenibilità ambientale di uno sviluppo che ripercorra le tappe segnate dalla civiltà occidentale e dai paesi del Nord del mondo. Che il 20% della popolazione mondiale detenga l’80% della ricchezza e dei beni è un fatto chiaramente inaccettabile, ma allo stesso tempo non è pensabile che l’impatto ambientale determinato da questa minoranza possa estendersi all’intera umanità: il mondo semplicemente imploderebbe. Serve quindi un ripensamento culturale sullo stile di vita delle popolazioni più abbienti e un’educazione anche in campo nutrizionale e alimentare per adottare diete sane dal punto di vista della salute e poco impattanti a livello ambientale.
Detto ciò è falso affermare, sull’onda di convinzioni di moda e di pulsioni emotive, che la carne faccia male alla salute. Come tutte le cose fa male se se ne fa un uso esagerato. Anche lo zucchero fa male se ne mangiamo troppo. O il vino, l’olio, la frutta secca, ecc.
“Est modus in rebus” (Ci vuole una misura nelle cose), lo dicevano già i latini migliaia di anni fa. E Paracelso, secoli dopo, ha ripetuto il concetto con l’asserzione “Dosis sola facit venenum” (E’ la quantità che costituisce il veleno). Sicuramente in alcuni Paesi e aree del mondo si fa un uso eccessivo di carne e di altri alimenti, ma altrettanto sicuramente in tante aree del pianeta il suo consumo è ancora insufficiente a garantire una dieta completa.
Stiamo poi attenti a non confondere la produzione di carne, o di altri alimenti di origine animale, media pro capite con quanto effettivamente consumato. Si stima che nei Paesi a economia avanzata dal 20 al 30% del cibo commercializzato sia gettato, tra distribuzione e consumo, e che almeno la stessa percentuale venga persa nei PVS durante la raccolta e la conservazione. Lo spreco alimentare è quindi il primo male da combattere, in ogni parte del mondo.

Allevamento animale: rischi ma anche benefici ambientali
Per aumentare la superficie a pascolo e a coltivazioni destinate ad alimenti zootecnici spesso sono state effettuate e tuttora si effettuano deforestazioni, soprattutto in America Latina (Amazzonia in primis), anche se l’entità di tali interventi è assai minore di quanto affermato da movimenti ambientalisti che mirano ad allarmare i cittadini più che informarli in maniera corretta. Chiaramente bisogna limitare il più possibile tali deforestazioni che aumentano il problema dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici. Lo stesso vale per il “sovrappascolo” che interessa circa il 20% delle terre a pascolo e che causa compattamento del suolo e conseguente erosione. Tale percentuale sale al 73% nelle aree siccitose, dove il bestiame è spesso l’unico mezzo di sussistenza per la popolazione.
Se però una concentrazione eccessiva del bestiame è dannosa, un suo carico equilibrato contribuisce positivamente alla fertilità del suolo. Per una buona fertilità, quest’ultimo deve avere almeno il 3% di sostanza organica (quindi carbonio), mentre in Pianura Padana e in altre aree pianeggianti del nostro Paese per decenni si sono utilizzati quasi esclusivamente concimi chimici a base di N, P e K, spesso senza interrare i residui colturali e quindi non restituendo al suolo neanche una parte di quanto prodotto in superficie. Risultato: oggi in Lombardia il tenore medio di sostanza organica del suolo nelle aree di pianura è del 2,4%. Ben vengano quindi reflui zootecnici che, se ben distribuiti, possono arricchire il suolo di carbonio aumentandone la fertilità e produttività.

Carne da fibra e carne da amido
Come sappiamo i ruminanti sono specializzati nella conversione della fibra (erba e foraggi in genere) in carne e latte. Tuttavia, mentre la resa energetica della conversione della fibra alimentare in latte è discreta (25-30% circa), quella in carne lo è molto meno (10-15%). L’energia apportata dall’amido è sicuramente convertita meglio in energia netta latte o carne, essendo l’amido, rispetto alla fibra, più digeribile (e quindi con minori perdite di energia fecale), meno convertito in metano (che una volta eruttato rappresenta un’altra perdita energetica oltre che un’importante fonte di gas a effetto serra) e meno soggetto a perdite energetiche metaboliche (extra-calore di produzione) durante l’utilizzo dell’energia che ne deriva all’interno dell’organismo animale. Ecco perché gli allevatori di bovini sia da latte che da carne inseriscono alimenti amidacei nella dieta: silomais, pastoni di mais, farine di cereali. Tale scelta è assolutamente giustificata negli allevamenti da latte per aumentarne l’efficienza produttiva e il livello di produzione (vedi quanto detto prima circa i costi di mantenimento).
La scelta invece di trasformare in carne bovina dei semi di cereali è discutibile e, a mio avviso, un lusso che solo i Paesi ricchi possono permettersi, non so ancora per quanto. Infatti una tonnellata di granella di mais dà molta più carne di pollo e, secondariamente, di maiale, che non di manzo. I monogastrici, polli soprattutto, hanno una resa molto più alta dei ruminanti.
Pertanto, per non sprecare alimenti zootecnici, energia e ridurre l’impatto ambientale (in termini per es. di emissioni di gas climalteranti come la CO2 e il metano), conviene destinare gli alimenti amidacei ai monogastrici, riservando ai ruminanti da carne gli alimenti fibrosi naturali (pascoli e foraggi da prati ed erbai) o quelli rappresentati da sottoprodotti industriali (polpe di bietola, crusca, trebbie di birra, distillers, pastazzo d’agrumi, marcomele, buccette di soia o di mandorle, buccette di pomodoro, ecc.).

I mangimi, fattore chiave dell’aumento produttivo
Dal dopoguerra i mangimi hanno consentito, assieme a genetica, tipologie costruttive e gestionali, igiene e sanità, un fortissimo aumento produttivo e di efficienza. Servono quindi cereali, semi di oleaginose e relativi sottoprodotti (cruscami e farine proteiche/panelli) e i vari sottoprodotti industriali quali materie prime per la formulazione e produzione dei mangimi composti.
E’ fondamentale che tali materie prime siano soggette ad analisi per verificarne i contenuti in elementi nutritivi e l’eventuale presenza di sostanze e fattori antinutrizionali (es. micotossine). Ancora: molti mangimi semplici possono subire appositi trattamenti meccanico/fisici che ne aumentino la digeribilità e il valore nutritivo. Sicuramente per un’industria mangimistica è più facile controllare in continuo le varie materie prime che impiega nella preparazione dei mangimi, che non l’azienda agricola sugli alimenti auto-prodotti (foraggi e cereali).

Precision feeding e ambiente
Proprio la conoscenza della composizione reale degli alimenti zootecnici che somministriamo agli animali è alla base della tecnica “precision feeding”: si tratta cioè di somministrare agli animali quanto serve per soddisfare i fabbisogni nutrizionali che il loro livello produttivo richiede, ma non di più, in quanto ogni nutriente in eccesso, oltre che rappresentare un costo, costituisce una fonte di inquinamento ambientale. Meglio un mangime per suinetti al 18% di proteina integrato con gli aminoacidi essenziali che servono (lisina, metionina, treonina, ecc.) che non uno al 20% che per raggiungere il minimo di alcuni aminoacidi eccede con gli altri e determinerà quindi una maggiore escrezione azotata (da cui nitrati nell’acqua di falda e ammoniaca in atmosfera).

Life Cycle Assessment (LCA)
E’ una metodologia che permette di valutare i carichi ambientali associati a un prodotto, processo o attività, identificando e quantificando i consumi di materia ed energia e le emissioni nell’ambiente. Tale tecnica quantifica, per l’unità funzionale desiderata (es. kg di latte, kg di carne, kg di uova, kg di proteina di origine animale) gli indicatori dei diversi parametri ambientali considerati: per es. i metri quadrati necessari per la produzione del kg di latte, i MJ di energia da fonti fossili (carbone, petrolio, metano), i kg di CO2 equivalente (considerando quindi, oltre all’anidride carbonica, anche il metano e il protossido d’azoto, tutti gas serra responsabili del riscaldamento del pianeta), i grammi di anidride solforosa equivalenti (considerando quindi anche l’ammoniaca, anch’essa responsabile delle piogge acide) e i grammi di fosfati equivalenti (includendovi quindi anche i nitrati, responsabili anch’essi dell’eutrofizzazione delle acque)
In tale analisi vengono computati sia i costi ambientali interni all’azienda, sia quelli esterni, dovuti, per es., alla produzione di alimenti zootecnici (es. farina di estrazione di soia) in Sudamerica, conversione di uso di suolo a tal fine, spese energetiche di lavorazione e produzione e di trasporto, con emissione di CO2.
Dagli studi fatti con l’LCA si è avuta la conferma che per alcuni parametri ambientali (ad es. l’utilizzo di suolo, l’impiego di energia da fonti non rinnovabili, il riscaldamento globale) gli allevamenti più produttivi sono quelli meno impattanti per unità di latte prodotto. Lo stesso vale per la carne. Chiaramente non si vuole affermare con questo che gli allevamenti delle zone marginali, quelli di tipo estensivo o quelli “biologici” debbano essere cambiati: ogni territorio e ambiente ha caratteristiche che lo rendono più adatto a un certo tipo di produzione e con modalità diverse. Certamente però gli allevamenti e le forme di agricoltura intensivi non vanno demonizzati, fornendo la maggior parte di alimenti alla popolazione del pianeta, soprattutto nelle città che rappresentano ormai e sempre più la maggioranza della popolazione.

Conclusioni
Non esiste un sistema di produzioni agricole standard, ognuno deve adattarsi al territorio e al contesto socio/economico in cui è inserito. Un aumento dell’efficienza di produzione, anche nei sistemi estensivi o semi-estensivi, comporta un minor impatto per unità di latte, carne, uova, pesce.
La sostenibilità dev’essere però anzitutto economica, altrimenti le aziende agricole e le stalle chiudono e gli agricoltori/allevatori si trasferiscono in città, con un danno sociale e ambientale di tutti.

Foto: © Sven Grundmann – Fotolia.com

G. Matteo Crovetto