Fabio Del Bravo è responsabile della Direzione Servizi per lo Sviluppo Rurale di Ismea, l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare che ha redatto, in collaborazione alla Fondazione Qualivita, il rapporto annuale sui valori economici e produttivi del comparto delle indicazioni geografiche agroalimentari e vitivinicole DOP, IGP, STG.
Qual è il ruolo di Ismea nel processo di consolidamento del sistema produttivo italiano delle indicazioni geografiche?
L’Ismea segue con attenzione lo sviluppo delle produzioni a indicazione geografica fin dalla loro formale istituzione con il regolamento dell’inizio degli anni ’90. La sua attività di monitoraggio e analisi ha contribuito a creare e accrescere consapevolezza tra gli operatori del settore e tra gli amministratori, dell’importanza del ruolo di questo settore, un tempo considerato di nicchia e oggi divenuto asse portante del Made in Italy agroalimentare. La misura, l’analisi delle dimensioni l’individuazione dei trend e delle prospettive è tuttavia solo una delle attività svolte dall’istituto. Negli ultimi anni, l’operatività si è spostata anche nella realizzazione di applicativi e, più in generale, strumenti finalizzati a supportare l’attività dei consorzi di tutela e semplificare le relazioni con le istituzioni. Il ruolo di Ismea potrà ulteriormente accrescersi nei prossimi anni anche a seguito delle novità che si prospettano con la futura Pac, la Politica Agricola Comune.
Nel 2020 scadono infatti i regolamenti della Politica Agricola Comune dell’attuale programmazione. Che impatto potrà avere la sua riforma sul comparto delle indicazioni geografiche nazionali?
L’analisi della programmazione passata (2007-2013) e di quella attuale (2014-2020) evidenzia che, pur essendo un tema molto trattato, la Pac non ha supportato in modo sostanziale la crescita del settore delle IG. Il contributo economico dello sviluppo rurale ai regimi di qualità riconosciuti dalla Ue è stato esiguo e in quota rilevante orientato verso il biologico. Anche la qualità del supporto derivato dalla Pac non sembra essere stata all’altezza; il contributo ai pagamenti delle spese di certificazione non sembra misura sufficiente a orientare le scelte imprenditoriali. La sfida, piuttosto, è trasformare le opportunità che offrirà lo spostamento dell’attenzione delle politiche, previsto dalle bozze di regolamento attuale, dalla “conformità” ai “risultati”. Questo porta con sé un riequilibrio di responsabilità tra l’Ue e gli Stati membri attraverso maggiore sussidiarietà fornendo l’opportunità di trasformare in fatti concreti i maggiori gradi di libertà.
L’obiettivo deve essere quello di inserire misure che siano davvero efficaci, che siano un traino per favorire la crescita delle produzioni che già si fregiano dei marchi e anche per favorire la nascita di ulteriori “campioni” del Made in Italy. Questo non significa, ovviamente, un aumento indiscriminato del numero di certificazioni ma, ad esempio, favorire politiche che consentano di equilibrare il peso delle IG tra il Nord, già ricco delle eccellenze nel settore dei salumi e dei formaggi ad esempio, e il Sud che rappresenta ancora una miniera di potenziali eccellenze da valorizzare. La crescita recente di prodotti quali, ad esempio, la Mozzarella di Bufala Campana o la Pasta di Gragnano o l’Arancia Rossa di Sicilia, deve essere da esempio per stimolare nuovi riconoscimenti che abbiano le potenzialità di affermarsi anche sui mercati internazionali.
Le esportazioni DOP IGP STG sono salite del 4,7% rispetto al 2016: in che modo il comparto può espandere la propria presenza sui mercati esteri, come incrementare l’export e conquistare nuovi mercati? Quali sono i principali ostacoli per una sua ulteriore crescita?
Così come per gran parte dell’alimentare, sul mercato interno i margini di crescita legati a un aumento dei consumi sono piuttosto limitati; all’estero, invece, il comparto può crescere ancora molto. Ci sono alcuni ostacoli che bisogna cercare di superare. Il primo è quello della difesa del prodotto italiano e la sua chiara distinzione da ogni tipo di evocazione e, tanto più, contraffazione. I numerosi tentativi di evocazione o contraffazione se da un lato sono la testimonianza del grande interesse e del potenziale inespresso dell’agroalimentare italiano, dall’altro possono sottrarre quote di mercato importanti al vero Made in Italy.
Tornando alle potenzialità, oltre ai mercati tradizionali e consolidati, le grandi opportunità provengono dai dalla crescita delle classi medie ad alto potenziale di spesa dei Paesi in forte sviluppo dell’Asia ma anche dell’Est Europa. Sono consumatori interessati a ciò che arriva dall’Italia ma che spesso, anche per assenza di consapevolezza o inesperienza, si riforniscono di prodotti che di italiano hanno ben poco e dunque vanno orientati all’acquisto dei veri prodotti Made in Italy informando, promuovendo e, in generale, proprio accrescendo il grado di consapevolezza sulla differenza tra un prodotto realmente italiano e uno falso.
Gli altri problemi riguardano la capacità di aggredire i potenziali mercati a causa di limiti dimensionali ma soprattutto, organizzativi delle imprese. Purtroppo, tra i prodotti IG ce ne sono molti che faticano a uscire dal circuito commerciale locale per limiti produttivi, scarsa organizzazione, scarsi mezzi. Tra queste realtà ve ne sono certamente alcune che meriterebbero di essere supportate per l’approdo sui mercati esteri. Infine c’è il tema, più ampio, del neo protezionismo di ritorno o, come cominciano a dire alcuni della “de-globalizzazione”. Per un Paese esportatore come il nostro barriere, tariffarie e non, sono quanto di peggio possa accadere; è per questo che il presidio degli accordi commerciali, sempre meno multilaterali e sempre più bilaterali, sarà un’attività sempre più importante in futuro.
Eccellenze e produttività: quali sono i margini di aumento di produttività dei prodotti a indicazione geografica?
Quello della produttività per il comparto delle IG è un aspetto meno rilevante di altri temi, visto che non è sul costo di produzione che si può impostare la competizione. Il primo è quello della compatibilità – che deve essere garantita – fra gli elementi di tradizione della produzione dei beni a indicazione geografica e l’innovazione tecnologica che può certamente favorire la riduzione dei costi di produzione e, talvolta, la qualità del prodotto. Le due cose non sono incompatibili ma ci vuole un approccio molto intelligente per non snaturare il prodotto d’origine. Una seconda questione è quella della sostenibilità, che si lega al tema della competitività. L’attenzione alla sostenibilità non deve essere vissuta come un vincolo bensì come un’opportunità. I consorzi di tutela e i disciplinari già sono attenti a tale questione ma bisogna fare di più per garantirla ulteriormente soprattutto nelle sue declinazioni ambientali ed etiche.
Prodotto di qualità è espressione di un sistema di qualità: parte dai produttori, passa dagli allevatori e arriva ai trasformatori. Cosa serve per rendere questa filiera sempre più integrata e capace di rispondere alle esigenze dei consumatori in cerca di qualità nei prodotti?
Generalmente, in buona parte, le Indicazioni Geografiche sono già una forma di integrazione evoluta rispetto ad altre filiere agroalimentari. Certo è che un ripensamento e adeguamento del ruolo dei consorzi di tutela potrebbe ulteriormente agevolare il processo di composizione delle istanze della produzione agricola e industriale a garanzia dell’equa distribuzione del valore prodotto. Ci sono ancora margini di sviluppo perché le stesse attività del consorzio possono favorire i rapporti tra le componenti della filiera e la crescita dei prodotti sia sul versante della qualità, della risposta al consumatore, che della quantità, due aspetti che vanno di pari passo.
Vito Miraglia