La Brexit è ormai una realtà e a poco serve parlare di irresponsabilità dei britannici per aver compiuto un salto nel buio. Quel che è certo è che l’abbandono dell’UE da parte del Regno Unito è un duro colpo alla credibilità dell’Unione Europea, incapace di imporre una politica in grado di favorire l’effettiva coesione tra gli stati membri.
Al momento non è ancora chiaro quali saranno le conseguenze della Brexit, quale effetto potrà avere sul nostro commercio estero e sull’economia e in quale scenario si troveranno ad agire le nostre imprese agroalimentari o se questa potrà rappresentare addirittura un’opportunità di rinnovamento delle regole dell’Unione e del commercio internazionale.
Certo in campo agro-alimentare l’uscita del Regno Unito pone una serie di interrogativi a partire dalla Politica agricola comune (PAC), che è uno dei meccanismi di consolidamento comunitario ed è una base su cui ha poggiato buona parte dell’integrazione europea e della costruzione di uno spazio economico europeo coerente. PAC che ha avuto fino ad ora un ruolo non di secondo piano nemmeno per gli agricoltori britannici: l’agricoltura del Regno Unito, infatti, riceve più di 4 miliardi di euro di sostegni agricoli ogni anno. Nel 2013, gli aiuti europei erano equivalenti a 4,3 miliardi di euro ed hanno rappresentato il 43% dei redditi complessivi del settore agricolo. Di fatto, ogni agricoltore britannico ha ricevuto in media 34 mila euro nel quadro della PAC.
Proprio a questo riguardo alcuni studi prospettici evidenziano addirittura che con l’uscita dall’UE solo il 10% delle aziende agricole britanniche sarebbero in grado di sopravvivere alla fine degli aiuti europei e che, pertanto, Londra si potrebbe trovare costretta ad istituire una politica agricola nazionale di sostegno all’agricoltura.
In attesa, tuttavia, che l’articolo 50 del trattato di Lisbona venga attivato per avviare la procedura formale di uscita dall’UE, nessuno, nemmeno i sostenitori del “leave”, sa realmente cosa accadrà, anche se nel frattempo, i primi effetti si sono fatti sentire: la sterlina e’ crollata e una delle conseguenze e’ stato l’aumento dei prezzi per le derrate alimentari nel paese, che produce solo il 54% degli alimenti che consuma e che ne importa dall’UE il 27%.
Del resto i primi ad essere scettici e preoccupati sulle conseguenze della Brexit sono proprio gli stessi britannici. Interessante in proposito l’analisi fatta da Timothy Lang, – Professore al Centre for Food Policy della City University di Londra – secondo il quale , l’Europa può anche essere definita disfunzionale, distante dalle realtà e burocratizzata, ma è innegabile che la produzione e la sicurezza alimentare dei suoi membri sia stata uno dei suoi successi. Lang vede nubi all’oroizzonte: le negoziazioni dovranno rivedere o confermare le basi legali di tutte le strutture interne, esterne e di scambio. Tutti gli accordi firmati tra Regno Unito e UE dovranno essere rivisti. Per tutto ciò che riguarda direttamente o indirettamente il settore alimentare, oltre ad eventuali tariffe doganali o quote da individuare, si dovranno rimettere in gioco più di 43 anni di trattati, di riforme, di strutture condivise, di accordi commerciali e impegni economici. Bisognerà ripartire da zero.
Ma quali effetti avrà la Brexit per l’Italia? È molto probabile che non agevolerà l’agroalimentare italiano, ma di certo sarà difficile che possa gioverà a quello britannico.
In effetti la Brexit potrebbe rendere le esportazioni agroalimentari italiane nel Regno Unito più difficili. Non va trascurato che la Gran Bretagna è oggi il quarto sbocco estero per i nostri prodotti agroalimentari. La bilancia commerciale tra Roma e Londra, nel 2015, evidenzia che il nostro Paese ha venduto merci per 22,5 miliardi di euro (3,2 di agroalimentare) e ne ha importate per 10,6 miliardi. Tutto ciò rischia ora di subire contraccolpi, e non solo per la svalutazione della sterlina. C’è infatti anche il pericolo che con l’uscita dall’Ue si affermi in Gran Bretagna una legislazione sfavorevole all’esportazioni agroalimentari anche italiane. Non va dimenticato infatti che proprio con gli inglesi l’Italia è l’Ue hanno avuto da ridire non poco circa le indicazioni da usare sulle etichette dei prodotti alimentari.
In ogni caso, oggi nessuno può prevedere con certezza cosa accadrà e tutto dipenderà da quando (e se) il Regno Unito ratificherà alla Commissione la sua richiesta di uscire dall’Unione. L’articolo 50 del Trattato dell’Unione europea, stabilisce la procedura per negoziare l’uscita dello Stato, prevedendo un lasso di tempo di due anni (salvo deroghe). Ma non solo: dopo aver negoziato l’uscita, l’accordo sulle future relazioni tra Unione europea e Regno Unito dovrà essere ratificato da tutti gli Stati membri.
Ci vorrà, pertanto, tempo e fino a quel momento c’è da aspettarsi che il commercio agroalimentare tra l’Unione europea e la Gran Bretagna, al di là dei problemi valutari della sterlina, continuerà senza particolari cambiamenti, non essendo ancora modificate le norme commerciali.
Alcuni punti fermi però sono ben delineati e non c’è dubbio che la Brexit rappresenti una grave crisi geopolitica. Per la prima volta dalla sua nascita, l’Unione Europea deve confrontarsi con un processo di disgregazione allo stesso tempo politico, economico e territoriale.
Un campanello di allarme che pone in evidenza le debolezze dell’UE, fino ad ora incapace di favorire una dinamica di convergenza e coesione tra i suoi Stati membri e che, anzi, ha finito per dare vigore a tutti quei movimenti – e non sono pochi – di euroscettici.
L’UE dovrà, ora, dimostrare di saper reagire garantendo la coesione dei 27 Stati che la compongono, perseguendo l’obiettivo urgente di un ordinamento europeo realmente armonizzato, di cui deve essere capace di pretendere e di ottenere il rispetto da parte di tutti, ad iniziare dalla necessità di un regime fiscale unico indispensabile ad evitare una situazione di squilibrio oggi non più sostenibile e che pone in serie difficoltà i sistemi produttivi e gli stessi cittadini.
Per restare al settore agroalimentare occorrono regole certe e uguali per tutti. Non è accettabile che vengano tollerate norme nazionali in contrasto con il libero mercato e la libera concorrenza, come avviene oggi ad esempio in materia di etichettatura, di OGM o di sicurezza alimentare, così come non si può fare a meno di rimettere profondamente in discussione la PAC e di rifondarla su basi consolidate e obiettivi apertamente accettati.
Il progetto europeo va dunque ridefinito in modo coerente e convinto.
Ma la Brexit ci lascia anche un insegnamento importantissimo: d’ora in poi per garantire il futuro dell’Unione Europea non sarà più sufficiente dichiararsi semplicemente europeisti.
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Giulio Gavino Usai