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Vacondio (Federalimentare): “Arrestare la deriva anti-industriale per rilanciare il sistema-Paese e i consumi”

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Ivano Vacondio, già presidente di Italmopa, l’Associazione industriale Mugnai d’Italia, è stato appena eletto presidente di Federalimentare. Mangimi & Alimenti l’ha incontrato per analizzare le principali questioni del settore agroalimentare italiano, dall’export al Made in Italy al deficit delle materie prime.

Presidente, nei prossimi quattro anni, dal 2019 al 2022, sarà al vertice dell’associazione di categoria del settore agroalimentare. Quali sono le linee guida del suo programma?

L’obiettivo centrale è valorizzare il ruolo e l’importanza dell’industria alimentare italiana. Siamo di fronte a un settore che raggiunge 140 miliardi di fatturato, cui si affiancano 55 miliardi di fatturato per il primario. Rispetto a un Pil 2018 attendibilmente stimato attorno a quota 1.750 miliardi, la filiera ne copre oltre l’11%. Tuttavia il suo peso e le sue doti anticicliche di assoluto rilievo non sono bastate a riscattare le inefficienze di un sistema-Paese gravato da problemi annosi. Il peso esorbitante del debito pubblico, la burocrazia lenta e autoreferenziale, la logistica datata, gli investimenti in ricerca limitati, il sistema di istruzione lacunoso hanno innescato nel tempo tendenze inerziali che gravano sulla produttività complessiva del sistema e sulle prospettive delle nuove generazioni. Il settore deve essere messo in condizioni di contribuire ancor meglio al rilancio del Paese.

Da un punto di vista generale, si è progressivamente affermata, nel nostro Paese, una preoccupante deriva anti industriale che non ha risparmiato neanche l’industria alimentare e le eccellenze che essa esprime nei vari comparti merceologici. L’azione di rappresentanza nei riguardi delle istituzioni, di qualsiasi natura esse siano, già ampiamente avviata dalle precedenti presidenze, deve essere ampliata. Le recenti esperienze insegnano tuttavia che le stesse istituzioni sono risultate troppo spesso, forse anche per motivi di opportunità politica, impermeabili alle nostre istanze o molto blande nella loro difesa, anche quando queste erano accompagnate da argomentazioni inoppugnabili.

Le difficoltà non sono tuttavia circoscritte ai complessi rapporti istituzionali. Nel mondo della comunicazione in particolare l’industria alimentare è stata solo raramente rappresentata come una risorsa e un patrimonio del nostro Paese e della sua economia. Si sono invece ravvisati atteggiamenti, quasi sistematici, di pregiudizio basati su valutazioni soggettive e l’uso di stereotipi che hanno purtroppo condizionato, qualche volta pesantemente, le scelte sia dei consumatori, sia – per altri motivi – delle stesse istituzioni. Il danno creato da un’informazione non corretta non è soltanto di natura economica: essa incoraggia infatti una cultura del sospetto, nei riguardi dei prodotti industriali, avente radici sempre più numerose e profonde. E su questo aspetto, dobbiamo decisamente impegnarci, tutti insieme, per invertire la rotta.

L’agroalimentare è stato riconosciuto come il motore della ripresa dopo la crisi del 2008 affermandosi come il secondo settore manifatturiero in Italia. L’export nel 2017 ha superato quota 41 miliardi di euro e anche il primo semestre del 2018 ne conferma il buon andamento, con un +3% su base tendenziale. Di cosa c’è ancora bisogno per sostenere la produzione italiana e dunque le esportazioni?

Sono convinto che le prospettive di medio-lungo termine sui mercati internazionali si giocheranno sul terreno che contraddistingue l’offerta del Made in Italy, ovvero la qualità e la caratterizzazione di prodotto. Le nuove classi medie che stanno crescendo in molti Paesi si stanno orientando verso approcci al cibo che un tempo caratterizzavano le élite.
La domanda mondiale, in sostanza, è sempre più interessata alle eccellenze alimentari e meno sensibile al prezzo. Si profilano quindi opportunità che sembrano tagliate apposta per una filiera come quella italiana. Che vede l’agricoltura al vertice Ue per valore aggiunto e l’industria alimentare anch’essa al vertice comunitario per numero di prodotti certificati.
Eppure, proprio queste prospettive stanno incentivando la concorrenza scorretta giocata, da un lato, con iniziative ispirate, a vario titolo e nei più svariati contesti, alle “etichette a semaforo”, dall’altro, al vero e proprio Italian Sounding.



La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti è stata interrotta da una tregua che potrebbe aprire nuovi scenari per il commercio internazionale. Quali ripercussioni potrebbero esserci per il settore agroalimentare italiano?

È appurato che il primo driver dello sviluppo è il commercio internazionale. Esso l’anno scorso è cresciuto del +4,5% e nel 2019 dovrebbe riavvicinarsi a questo trend. Certo, se si allarga il fall out del malessere commerciale fra le due superpotenze economiche, il passo potrebbe ridursi, appesantendo la congiuntura di tutti, soprattutto dei Paesi fortemente export oriented come il nostro.



L’Italian Sounding è un altro problema per il Made in Italy in termini di perdita di posti di lavoro e danni di immagine: solo negli Stati Uniti questo fenomeno costa al Paese 23 miliardi di euro. Quale strategia ha in mente di seguire per limitarne le conseguenze?

L’Italian Sounding costituisce uno “scippo” davvero preoccupante, che si avvia a diventare ciclopico, per la filiera nazionale. La stima del fenomeno effettuata 8-10 anni fa indicava una soglia di 60 miliardi che incideva per il 50% circa sul livello di fatturato di settore nel periodo, pari a 120-124 miliardi. Oggi esso ha raggiunto i 90 miliardi, che incidono per il 64% (sostanzialmente due terzi) sull’attuale fatturato di settore (140 miliardi). Di questo passo, fra 10 anni, è facile prevedere un ulteriore, micidiale avvicinamento delle due soglie. Gli ordini di grandezza, fra un decennio, potrebbero vedere infatti un Italian Sounding a quota 120 miliardi, a fronte di un fatturato di 160 miliardi o poco più. Ne uscirebbe un’incidenza del 75%. L’accelerazione del fenomeno aiuta a spiegare perché, malgrado i successi messi a segno dalla filiera, l’obiettivo auspicato di 50 miliardi di export agroalimentare al 2020 sarà avvicinato, ma non raggiunto. Proiezioni attendibili indicano infatti una soglia probabile di questo parametro, l’anno venturo, attorno ai 46 miliardi o poco più.

Voglio aggiungere che la teoria di alcuni, secondo cui l’Italian Sounding, avrebbe anche qualche merito, in quanto avvicinerebbe comunque al “mondo” del Made in Italy lo stuolo dei consumatori del “vorrei ma non posso”, è del tutto fuorviante. L’Italian Sounding è solo in piccola parte una “transizione di avvicinamento” di consumatori i quali, dotati in prospettiva di maggiore capacità di acquisto, approderanno all’autentico e più caro Made in Italy. Il fenomeno consolida invece un’abitudine di acquisto a fasce di prodotti che creano, nel tempo, un vero e proprio, inestirpabile “costume”. La familiarità al prodotto taroccato priva definitivamente, in realtà, la produzione originale di ampie fasce di mercato. Ne è riprova la progressione impressionante del fenomeno, che con tutta evidenza non si raggiungerebbe se esso fosse legato in modo significativo a processi di ricambio, ovvero di sola transizione e avvicinamento.

Occorre perciò moltiplicare le iniziative di filiera che, non solo promuovano i nostri prodotti ed educhino i consumatori, ma pongano argine al montare di questo fenomeno. Lo strumento migliore è rappresentato da accordi bilaterali come quello recente col Canada, il CETA, che prevede significative salvaguardie per un ampio spettro di prodotti certificati.



L’Italia è però anche un Paese che importa commodities. Ad esempio, a causa della riduzione delle superfici coltivate a mais, che hanno toccato il minimo storico, l’import di questo cereale è cresciuto dall’11% al 47% in poco meno di vent’anni. Quali azioni saranno messe in campo per ridurre la dipendenza dall’estero?

Bisogna lavorare sul potenziamento della quantità e qualità delle materie prime agricole prodotte in Italia. Se potesse, l’industria alimentare italiana attingerebbe per intero le sue forniture dalla produzione nazionale, senza essere ostaggio delle quotazioni fissate dai trader internazionali. Sono pretestuose, perciò, le polemiche di alcune rappresentanze agricole sul fatto che importiamo frumento, olio, latte, prodotti zootecnici, come se facessimo concorrenza scorretta. Se lo facciamo è perché siamo obbligati a farlo. Il cuore della nostra bravura sta nella trasformazione, nella capacità di dare caratteristiche distintive importanti e valore aggiunto a prodotti che sono blend di forniture nazionali ed estere, o sono addirittura frutto di prodotti interamente importati, come nel caso del caffè, di cui abbiamo fatto nel tempo una bandiera nazionale.



Nel primo semestre del 2018 i consumi agroalimentari interni sono cresciuti in misura marginale, meno dell’1%, con un rallentamento nel secondo trimestre. Come si possono incrementare?

I dati si spingono ormai fino a fine anno. Secondo le ultime rilevazioni Istat, le vendite alimentari interne hanno segnato nel 2018 un +0,8% in valore e un -0,5% in volume. Ottobre è stato un mese positivamente “anomalo”, con spunti del +1,8% in valore e del +1,2% in volume rispetto all’ottobre 2017. Ma ho ragione di ritenere che si tratti di un risultato volatile. Ne è la prova il fatto che i discount alimentari stiano crescendo ancora e abbiano segnato in parallelo, sui dieci mesi, un +4,5% in valore. La forbice indica che il prezzo rimane la stella polare per le decisioni di acquisto della grande maggioranza delle famiglie. Il fenomeno rappresenta un indicatore indubbio di permanente, scarsa fiducia di fondo sulle prospettive economiche a breve, da parte del consumatore.

La strada maestra per incrementare il mercato di prodotti di largo consumo come quelli alimentari passa per lo sviluppo di fondo del Paese e il conseguente incremento della capacità di acquisto delle famiglie. Occorre dare stabilità al Paese e pensare alla classe media, che ha sofferto la crisi in modo specifico, finendo con l’innestare la polarizzazione dei consumi. Va pure detto che alcune nicchie di prodotto, come i premium, i salutistici e altri, hanno camminato bene negli ultimi anni. Ma essi non bastano a riscattare l’inerzia di fondo del mercato. Il fenomeno rischia di radicarsi ancora di più, con le declinanti prospettive a breve del Pil nazionale.

A luglio la Corte di Giustizia europea, con una sentenza che ha sollevato diverse critiche, ha paragonato gli organismi ottenuti con le nuove tecniche di mutagenesi agli Ogm. Qual è la posizione di Federalimentare riguardo la ricerca scientifica e che spazio avrà nel programma di governo?

L’industria alimentare è interessata a valutare le eventuali opportunità di sviluppo offerte dalle tecniche innovative di miglioramento genetico, specie ove queste si dimostrassero, in un contesto sostenibile, capaci di contribuire in tempi rapidi e a costi accessibili al miglioramento della produttività e della qualità nutrizionale. Ciò, naturalmente, nel quadro della sicurezza assoluta e della qualità delle produzioni alimentari, che rimangono priorità strategiche del settore in tutte le fasi dei processi produttivi della filiera. Insomma, la tutela della salute del consumatore e dell’ambiente rimangono assolutamente imprescindibili.

Vito Miraglia