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Dino Scanavino (Presidente Cia): «La cisgenetica un’importante opportunità scientifica»

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A poche settimane dalla chiusura di Expo Milano, il presidente della Confederazione Italiana Agricoltori, Dino Scanavino, traccia un bilancio dell’Esposizione Universale e affronta le principali questioni dell’agricoltura italiana.

Si è da poco concluso l’Expo di Milano, un suo bilancio?

«Durante l’Expo il nostro Paese ha avuto l’opportunità di mostrare al mondo le eccellenze della produzione agricola nazionale, indissolubilmente legate con il territorio, la tradizione ed i saperi degli agricoltori, sempre aperti all’innovazione ed al contributo delle giovani generazioni. In questo contesto si sono mosse tutte le attività programmate dalla Confederazione Italiana Agricoltori all’interno dell’Esposizione. Sei mesi di impegni e iniziative con approfondimenti tematici, incontri per le imprese, formazione, itinerari enogastronomici e culturali, degustazioni e iniziative specifiche per le filiere produttive. Un percorso faticoso che ci ha consentito di raggiungere l’obiettivo che avevamo programmato alla vigilia; ovvero dimostrare concretamente che il benessere futuro potrà realizzarsi solo nella scelta collettiva di dare più “Valore alla Terra”. Per queste ragioni il bilancio può considerarsi più che positivo».

Carta di Milano e sfida per l’alimentazione dell’umanità: quale eredità lascia l’Expo italiano?

«Gli importanti principi contenuti all’interno della Carta di Milano hanno avuto il merito di tracciare la strada da seguire per raccogliere in futuro la sfida globale di “nutrire il pianeta”. In quest’ottica, la Cia ha fornito un prezioso contributo grazie al percorso che abbiamo titolato “Il territorio come destino”. Un documento di sintesi del ciclo d’iniziative che la Confederazione ha portato avanti in tutta Italia nell’ultimo anno per arrivare a definire un modello economico, sociale e produttivo sostenibile a cui riferirsi nel futuro per vincere la sfida di “nutrire il Pianeta”. Con orgoglio, possiamo rivendicare che gran parte di questi principi ha trovato declinazione nella Carta di Milano. Adesso, facendo tesoro dell’esperienza maturata durante i sei mesi di Expo, è necessario costruire un percorso concreto (di scelte politiche e iniziative) al fine di capitalizzare l’eredità che ha lasciato l’Esposizione di Milano. Ecco perché abbiamo deciso di aggiornare il percorso del “territorio come destino”. Un passaggio necessario e opportuno al fine di non dissipare l’eredità che ci ha lasciato Expo’».

Ci sono elementi negativi in questo 2015 segnato dall’Esposizione Universale? Quali aspetti che non sono stati valorizzati al meglio? Cosa si sarebbe potuto fare meglio?

«Come in tutte le esperienze, accanto agli elementi positivi non sono mancati aspetti negativi. In tal senso, credo si sarebbe potuto fare di più in termini di valorizzazione del ruolo degli agricoltori. Se infatti durante l’Esposizione Universale si è parlato molto e approfonditamente di cibo e un poco di agricoltura, lo stesso non si può dire per gli agricoltori. Credo che si sarebbe potuto e dovuto approfondire di più il ruolo strategico delle imprese agricole all’interno della sfida “nutrire il Pianeta”. La Cia, come ho già detto, attraverso le sue iniziative e con il documento “Il Territorio come destino” ha fatto la sua parte. Abbiamo puntato proprio su questo ruolo nella consapevolezza che, soltanto valorizzando la componente a monte della filiera, si potranno ottenere importanti risultati sul fronte delle sfide che caratterizzeranno l’evoluzione futura dell’alimentazione mondiale».

In queste settimana, a seguito di alcune decisioni europee, si è parlato molto di Ogm: qual è la vostra posizione in tal senso?

«Come è noto da parte nostra non vi è un atteggiamento oscurantista né una preclusione nei confronti della ricerca. Crediamo invece che bisogna tutelare le esigenze peculiari delle produzioni tipiche dei territori agricoli italiani. I mercati stranieri chiedono vini, oli, formaggi, salumi e trasformati tipici dei nostri territori, con i loro sapori caratteristici assolutamente non omologabili. Il nostro “no” agli OGM non deriva quindi da posizioni ideologiche o da una rappresentazione dell’agricoltura con caratteristiche bucoliche ma, piuttosto, dal timore-consapevolezza che la loro introduzione potrebbe determinare danni in termini commerciali. Anche se non sussistono elementi scientifici che dimostrano eventuali pericoli per la salute umana derivanti dal consumo di cibi OGM, non possiamo permetterci di mettere a rischio il vantaggio competitivo che, molte nostre produzioni, hanno conquistato con sacrificio sui mercati esteri».

Recentemente il ministro Martina ha parlato della cisgenetica come la nuova frontiera della ricerca in agricoltura. È una visione che vi trova d’accordo?

«Sono d’accordo con il Ministro Martina perché credo che la cisgenetica possa essere un’importante opportunità scientifica. In particolare, utilizzando materiale genetico proveniente da organismi donatori della stessa specie vegetale, rappresenta una frontiera efficace e sostenibile per contrastare la diffusione di alcune patologie che affliggono le nostre produzioni con danni per le imprese agricole. Basti pensare ad alcune malattie delle colture arboree come, ad esempio, la vite oppure alla Xylella nell’ulivo che sta mettendo in ginocchio una delle più importanti produzioni del sistema agroalimentare Made in Italy. Credo quindi che gli sviluppi e le potenzialità della cisgenetica meritano di essere seguiti con interesse e approfonditi».

Un tema molto dibattuto in agricoltura è quello della ricerca e del progresso scientifico. Lei la vede come una questione di laboratorio (“ricerca sì, nei luoghi accademici”) o come una questione di campo (“ricerca come sperimentazione da verificare sui terreni”)?

«Per sua stessa natura la ricerca deve essere fatta in laboratorio, presso le Università. È da li che si parte; poi, successivamente, eventuali risultati possono essere sperimentati e controllati in campo. Al di la di ciò, non credo che il dibattito si debba esaurire su un’eventuale scelta tra ricerca in laboratorio o in campo. Piuttosto, è fondamentale intervenire sul fronte delle divulgazione delle evidenze scientifiche colmando un gap che interessa, in particolare, il nostro Paese e l’Europa. Il calo della spesa pubblica in ricerca e sviluppo in agricoltura che, negli ultimi decenni, ha interessato il Vecchio continente (ma anche gli Stati Uniti) non aiuta. Tuttavia, sul fronte della diffusione delle conoscenze non si può abbassare la guardia così come, per il futuro, il ruolo dell’intervento pubblico dovrà tornare ad essere fondamentale anche per rendere praticabili i costi dell’accesso all’innovazione per gli agricoltori».

L’indicazione dell’Oms che ha collocato le carni lavorate e le carni rosse tra gli agenti potenzialmente cancerogeni ha destato grande scalpore. Che pericolo corre la zootecnia italiana?

«Fortunatamente, dopo i primi giorni in cui si è verificato un calo fisiologico dei consumi, la situazione sembra essere tornata alla normalità. Piuttosto che creare allarmismi spesso ingiustificati, sarebbe opportuno che le indicazioni dell’Oms fossero interpretate all’interno di un più generale ed equilibrato stile di vita e di consumo. Del resto, la salubrità e la qualità delle produzioni italiane, molte delle quali appartenenti al modello di consumo della Dieta Mediterranea, sono elemento di garanzia per i cittadini».

Qualità italiana nell’allevamento e nell’alimentazione: è questa la ricetta per salvaguardare il futuro della produzione zootecnia del Belpaese?

«Quella della qualità è senza dubbio un importante leva sui cui continuare ad investire per valorizzare la produzione zootecnica Made in Italy. Accanto a ciò, è urgente programmare lo sviluppo di una delle filiere più importanti della nostra agricoltura, a partire dalla necessità di ridurre la dipendenza dall’estero aumentando il grado di autosufficienza nazionale nella fase del ristallo bovino. Non più rinviabile anche la gestione della sostenibilità ambientale legata all’attività di allevamento. La questione nitrati va affrontata definitivamente non trascurando soluzioni innovative come, ad esempio, la “delocalizzazione estensiva dell’allevamento” attraverso una progettazione organica ed equilibrata dal punto di vista territoriale. Sono tematiche strategiche per la zootecnia sulle quali è giunto il momento di aprire un confronto costruttivo tra settore, politica e Istituzioni.

Latte: la fine del sistema “quote” ha prodotto grande tensione tra i produttori italiani. Quali sono le prospettive, e i pericoli, per il futuro dell’allevamento italiano?

«Alcuni elementi di prospettiva del settore lattiero-caseario nazionale sono comuni a quello delle carni (ad esempio il fronte della sostenibilità ambientale della fase di allevamento). Tuttavia, il comparto deve essere accompagnato verso la nuova fase dopo la fine delle quote produttive. Nel breve periodo è necessario che le misure anti-crisi che l’Europa ha messo in campo per tamponare l’emergenza siano efficaci e producano i risultati attesi. La possibilità di gestire le risorse autonomamente in ambito nazionale può rappresentare un’opportunità. È nostra convinzione che il plafond per il settore debba essere indirizzato direttamente sul mercato, prioritariamente attraverso lo strumento degli aiuti agli indigenti. Guardando al futuro, è necessario un impegno in sede europea per modernizzare gli strumenti anti-crisi mentre, in Italia, occorrono certezze sul Piano latte e sull’utilizzo dei fondi disponibili. Tra stanziamenti comunitari, interventi promozionali e compensazioni delle quote latte, ci sono consistenti risorse finanziarie da destinare al rilancio del settore».

Vito Miraglia