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Il valore dei record e l’agroalimentare italiano ad un bivio

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Il 2013 è stato l’anno dei record. Il primo è quello dell’agroalimentare italiano: l’export del Made in Italy ha superato quota 33 miliardi di euro. Ne abbiamo sentito parlare spesso alla tv, sulla stampa specializzata e sull’informazione generalista. In un periodo non facile, il successo ottenuto dalle produzioni agroalimentari “tricolori” ci inorgoglisce, evidenziando le capacità delle nostre aziende di produrre eccellenze e di tenere alto il nome del Paese. Un successo di tutta la filiera alimentare di cui andiamo fieri e al quale il settore mangimistico e la zootecnia nazionale offrono un contributo importante in termini di sicurezza e qualità nutrizionali dei prodotti alimentari di origine animale riconosciuti da un capo all’altro del mondo. Un successo che non nasconde, però, le difficoltà della domanda interna e l’alto prezzo in termini di competitività che l’Italia paga, anche per scelte economiche e politiche spesso incomprensibili e penalizzanti.

 

Dall’altra parte dell’oceano è stato segnato un altro record, di cui poco si è saputo in Europa e, in particolare, in Italia. Durante il Corn Yield Contest ­ la più importante competizione organizzata ogni anno dall’Associazione nazionale dei maiscoltori americani per valutare “sul campo” la capacità produttiva ­ un agricoltore della Virginia, David Hula, ha conseguito il nuovo record del mondo per la più alta produzione di mais: 285,3 quintali ad ettaro. Un salto in avanti eccezionale. Il record precedente resisteva, infatti, dal 2002 ed era stato ottenuto coltivando un ibrido della Pioneer, ma per quello conseguito lo scorso anno è stato utilizzata la versione geneticamente modificata dell’ibrido Pioneer P2008YHR. Poco si conosce in Italia di questa manifestazione americana, che nell’edizione 2013 ha visto la partecipazione di quasi 10mila maiscoltori, arrivati da ogni parte degli Stati Uniti che hanno portato con sé esperienze diverse, confrontandosi su tecnologie agronomiche, attrezzature e sementi, contribuendo a far avanzare il “sapere” agricolo e quello tecnico- scientifico con un confronto libero e costruttivo, nel cui contesto l’interazione con la scienza dimostra che questo confronto paga. Il Nuovo Mondo è davvero un altro Mondo, per chi lo guarda da lontano. Ma per chi ­ come le nostre aziende ­ ogni giorno profonde impegno e sacrifici nel rendere più solido e competitivo il Sistema­Italia, quel record vuol dire anche altro. Un rapido calcolo ci può venire in aiuto.

 

Se in Italia potessimo operare con le stesse sementi che hanno permesso all’agricoltore David Hula di ottenere la sua produzione­record, considerano una superficie coltivata a mais che secondo l’Istat nel 2013 è stata pari a 917.500 ettari e che ha reso una produzione modesta e inferiore a 70 milioni di quintali di granella, potremmo invece ottenere ben 261,7 milioni di tonnellate di mais. La differenza tra il record Usa e il record italiano (che è di 146,3 q.li/ha) è di ben 137,2 quintali. Moltiplicando questa resa “mancante” per i 917.500 ettari totali coltivati nel nostro Paese otteniamo una cifra enorme: 125,8 milioni di quintali di granella che mancano oggi all’appello e che, invece, consentirebbero al nostro Paese non solo di colmare il deficit del 40% del mais che oggi è costretta ad importare, ma addirittura di diventare esportatore o di dedicare una parte della superficie oggi seminata a mais a produrre altre materie prime che oggi siamo costretti ad acquistare dall’estero. Probabilmente qualcuno obietterà che così facendo si favorirebbe l’omologazione delle produzioni, ma è un alibi, poco credibile e che non regge, sventolato per nascondere che in Italia da venti anni è stata boicottata la ricerca scientifica. Questo boicottaggio non sta permettendo di sfruttare il valore e la competenza di molti importanti centri di ricerca nazionali attraverso i quali avremmo potuto sviluppare varietà più produttive, conservando la specificità di quelle del nostro territorio e incrementando la competitività delle produzioni tipiche nostrane.

 

Il record dell’agroalimentare italiano non può essere la foglia di fico che nasconde le fragilità del Sistema­Italia. Siamo dipendenti dall’estero per oltre il 50% delle materie prime vegetali (soia, mais, sorgo grano, ecc.), ma anche per oltre il 35% della carne suina, per più del 50% di quella bovina, per il 40% di latte. Ciò nonostante, continuiamo a perdere capacità produttiva interna: si pensi, ad esempio, che nel biennio 2012/2013 nel nostro Paese abbiamo perso quasi un milione di suini nei nostri allevamenti, cioè circa il 10% in meno del nostro patrimonio suino. Il rischio è che diventi sempre più facile, e meno oneroso, importare carne da Olanda, Germania o Danimarca per produrre prosciutti in Italia piuttosto che importare mais o soia per allevare suini nel nostro Paese. Un paradosso difficile da accettare e che, in un futuro non troppo lontano, potrebbe arrivare all’assurdo che il successo del Made in Italy debba dipendere dal successo dei nostri principali fornitori esteri.

 

Foto: Pixabay

Giulio Gavino Usai