All’inizio di novembre è stata trasmessa su una nota rete televisiva pubblica un’ennesima trasmissione dedicata alle colture Ogm, alla proprietà dei brevetti sulle sementi e all’attività commerciale delle multinazionali, che offre lo spunto per tornare sulla questione della ricerca in agricoltura e del miglioramento genetico di alcune varietà vegetali, questa volta da un nuovo punto di osservazione, arricchito di nuovi elementi di dibattito. Eccoli:
1. Pur restando il confronto sulle biotecnologie basato sulla contrapposizione tra favorevoli e contrari, sembra emergere, sia da trasmissioni di inchiesta come quella sopra citata, sia dagli articoli della stampa generalista – ulteriormente amplificati dalle nuove forme di comunicazione della Rete – uno spostamento dell’attenzione dagli aspetti legati alla salute/sicurezza – questione divenuta logora vista l’assenza di risultanze scientifiche che evidenzino rischi in tal senso – ad aspetti di ordine economico legati alle biotecnologie, mettendo in discussione i brevetti che ne tutelano la proprietà intellettuale e richiamando il problema del monopolio gestito da pochi gruppi industriali che ne trarrebbero vantaggio. Gli Ogm restano sempre al centro del dibattito a vari livelli, ma assistiamo ad un abbassamento della temperatura polemica nei confronti della “manipolazione” genetica e dei suoi presunti rischi, sostanzialmente per l’insussistenza di prove scientifiche in merito ai pericoli – di fatto inesistenti – che ne deriverebbero per la salute. In altre parole, essendo ormai acclarati i risultati sulla innocuità delle produzioni, l’attenzione viene dirottata su chi detiene la conoscenza degli Ogm, sul rischio di “sudditanza” per gli agricoltori che intendono utilizzarli e sulla possibilità che le biotecnologie possano comportare rischi per le coltivazione tradizionali.
2. L’aver spostato l’oggetto dell’attenzione sui potenziali rischi rappresentati dal monopolio di pochi gruppi industriali, cioè alcune multinazionali, non dovrebbe però prescindere da un confronto sereno. Va riconosciuto che ad oggi la ricerca pubblica è sempre meno attiva e che – nel bene o nel male – studi e progetti di ricerca sono condotti per la maggior parte su iniziativa di privati e da questa attività – che piaccia o meno – proviene un notevole stimolo all’innovazione in agricoltura, come del resto l’uomo ha sempre cercato di fare fin dalle sue origini. Nel campo della ricerca genetica non si può tacere il fatto che questa ha permesso di conseguire importantissimi risultati e non solo in agricoltura: si pensi al settore farmaceutico i cui sviluppi permettono di curare malattie globali e di salvare milioni di vite. Del resto la ricerca, specie in settori come questi, costa moltissimo ed è perciò inevitabile che coloro che la finanziano cerchino poi di proteggere la proprietà intellettuale dei risultati ottenuti con i brevetti e di trarne un profitto.
3. Un elemento che, al contrario, dovrebbe preoccupare non è tanto l’intensa attività privata di ricerca in agricoltura e nelle biotecnologie in particolare, quanto l’accecante carenza della ricerca pubblica, oggi del tutto inadeguata rispetto alle necessità e alla richiesta di innovazione che proviene dal mondo produttivo. Ricerca pubblica alla quale da anni è stata di fatto preclusa la possibilità – sia con interventi normativi, sia tagliando le risorse necessarie – di testare e sviluppare queste nuove tecnologie, al fine di poterne valutare rischi ed opportunità, ma anche di poterle rendere più confacenti alle specifiche peculiarità nazionali, garantendo così un’attività imparziale a vantaggio di produttori agricoli, trasformatori e consumatori. Una attività di ricerca, tra l’altro, indispensabile specie per un paese fortemente deficitario di materie prime agricole come il nostro, che deve importare dall’estero quasi il 50% di quello che consuma e che dovrebbe pensare a fare crescere le sue produzioni. Nonostante l’Italia abbia un passato illustre nella ricerca in agricoltura e abbia a disposizione centri di ricerca di eccellenza e personalità di assoluto rilevo del mondo scientifico, da almeno 20 anni si è di fatto impedito di portare avanti qualsiasi progetto di studio e di sperimentazione in campo di nuove varietà colturali che le moderne tecnologie ci potrebbero consentire di ottenere. Si è preferito criticare gli studi e le ricerche altrui, facendo tacere i nostri ricercatori, privandoli di risorse e strumenti per portare avanti studi in grado di sviluppare innovazione e progresso tecnologico. Questo non è accettabile in un Paese che vuole restare competitivo e che vuole promuovere sviluppo per chi produce e garanzie ai suoi consumatori. Assalzoo ha chiesto più volte ed in tutte le sedi istituzionali, che il nostro Paese non abbandoni la ricerca pubblica in agricoltura, perché rappresenta un leva indispensabile di cui l’agroalimentare italiano non può fare a meno, ma siamo rimasti fino ad ora inascoltati.
4. E infine c’è un altro vulnus: la disciplina normativa che il nostro Paese si ostina a voler imporre, in palese contrasto con la sovraordinata normativa europea, esponendo per di più il nostro Paese alle note procedure di infrazione e a possibili multe. Il caso del divieto di coltivazione del mais Mon 810 è emblematico e Assalzoo aveva anche preceduto le conclusioni cui è giunta la stessa EFSA nello scorso settembre, richiamando un semplice ragionamento di logica giuridica e di buon senso. Il tema è quello della “clausola di salvaguardia” invocata dall’Italia e sottoposta al giudizio della Commissione europea. Ne avevamo parlato anche in un editoriale, sostenendo che uno Stato membro non può sostenere l’adozione di una misura di emergenza quando non sia suffragata da nuove prove scientifiche in termini di rischio per la salute umana o animale e per l’ambiente. E l’Efsa ha confermato la correttezza di tale assunto sostenendo che “tutte le preoccupazioni legate alla salute umana e animale o all’ambiente sollevate dall’Italia – si legge nel parere – sono già state affrontate in precedenti pareri scientifici sul mais mon810 del panel sugli ogm dell’Efsa”, aggiungendo che la richiesta “non risulta essere stata motivata, come prevede la legge europea e nazionale, da nuove o ulteriori informazioni che riguardano la valutazione dei rischi ambientali o da una nuova valutazione delle informazioni esistenti basata su nuove o supplementari conoscenze scientifiche sugli ogm”. Eppure a vari livelli di Governo, da parte di parlamentari o in sede regionale si continua con ostinazione a percorrere la strada contraria. Ultimo in ordine di tempo il decreto interministeriale del luglio scorso contro la coltivazione del mais in questione. Insomma, errare è umano, “sed persevare diabolicum”.
È sempre più difficile comprendere come mai le nostre autorità intervengano con fermezza in spazi decisionali quanto meno dubbi, trascurando invece di adoperarsi dove c’è una reale necessità: finanziando la ricerca di base; sostenendo Enti, Università e Istituti di studio; lavorando per dare autosufficienza produttiva ad un Paese che rischia la marginalizzazione dai mercati, anche per quelle produzioni che rappresentano il fiore all’occhiello del Made in Italy alimentare. Chi ha la responsabilità delle scelte non può trascurare ancora la necessità che l’agricoltura torni tra le priorità dell’agenda politica di questo Paese, con quel pragmatismo e quella considerazione necessari a valorizzare un settore strategico dal quale dipende una larga fetta dell’economia nazionale, ma che deve garantire soprattutto la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari.
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Giulio Gavino Usai – Responsabile Settore Economico Assalzoo