La domanda mondiale di soia cresce al ritmo di 7 milioni di tonnellate all’anno. Il dato è riportato all’interno di “Full Planet, Empty Plates: The New Geopolitics of Food Scarcity” ebook pubblicato dallo scrittore, ambientalista ed economista statunitense Lester Russell Brown, secondo cui questo aumento della richiesta è guidato principalmente dai 3 miliardi di persone che consumano sempre più cereali e soia in tutto il mondo, ma anche dalla crescita della domanda di olio di soia da utilizzare nel campo dei biocombustibili.
La storia del successo della soia ha però origini più profonde. La sua domesticazione risale a circa 3 mila anni fa e ha visto questo legume essenzialmente confinato nelle regioni orientali della Cina. Si dovette infatti aspettare il 1765 perché il suo primo fagiolo arrivasse nell’America del Nord, dove la soia ha però iniziato ad essere coltivata attivamente solo a partire dalla fine degli anni ’20 del secolo scorso. A promuoverne l’iniziale diffusione è stato il mercato dell’olio di soia, che ha portato le produzioni a ben 8 milioni di tonnellate già nel 1950. In seguito l’aumento della richiesta di carne, latte e uova ha fatto sì che anche il settore mangimistico iniziasse ad interessarsi a questo legume. Per aumentare la produzione di carne e di latte a fronte di una disponibilità limitata di foraggi gli allevatori hanno infatti optato per l’uso di cereali e di farina di soia. Tutto ciò ha fatto sì che negli anni ’60 il prodotto principale della lavorazione della soia diventasse proprio la farina e che il valore di quest’ultima superasse quello dell’olio.
L’aumento dell’uso della soia in mangimistica è attribuibile anche alla scoperta da parte degli esperti di nutrizione animale che combinare 1 parte di farina di soia con 4 parti di cereali (in genere mais) permette di aumentare rapidamente l’efficienza con cui il bestiame e il pollame convertono il cibo in proteine animali. “Questo – spiega Brown – è stato il biglietto della soia verso la supremazia agricola che le ha permesso di unirsi al frumento, al riso e al mais in qualità di una delle quattro coltivazioni principali”.
Attualmente i produttori principali di soia sono gli Stati Uniti (con 80 milioni di tonnellate), il Brasile (70 milioni) e l’Argentina (45 milioni), che staccano di parecchio la Cina, ferma a 14 milioni di tonnellate. Per quanto riguarda invece le esportazioni, se fino al 2010 a farla da padrone sono stati gli Stati Uniti, nel 2011 le vendite brasiliane all’estero hanno letteralmente eclissato quelle statunitensi. E anche se per molti consumatori la soia è un ingrediente invisibile della loro alimentazione, in cui entra travestito da prodotti come il tofu, in realtà non è solo il settore mangimistico a guidare lo sviluppo di questo mercato, ma anche l’alimentazione umana.
La conseguenza principale dell’aumento della consumo mondiale di questo legume è stato un capovolgimento dell’agricoltura dell’emisfero occidentale del pianeta. Attualmente gli stati Uniti coltivano più terreno a soia che a frumento. In Brasile le aree coltivate a soia superano l’insieme di quelle su cui vengono fatti crescere tutti i cereali. L’Argentina rischia addirittura di diventare una monocoltura. Questa espansione potrebbe però non bastare per soddisfare le richieste del legume. La soia ha infatti rese inferiori rispetto, ad esempio, al mais, che non fissando l’azoto atmosferico risponde meglio all’uso dei fertilizzanti. “Se le terre in più da trovare per rispondere alla domanda crescente non dovessero essere in Brasile, dove saranno?”, si chiede l’esperto. Per ora la domanda resta senza risposta.
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Silvia Soligon