L’allevamento del bufalo da carne, attività vicina alle radici storiche delle nostra comunità, oltre che ricca in termine culturale, può fornire un prodotto con standard qualitativi che garantiscono ai consumatori elevati livelli di sicurezza. Campanile Castaldo (1960), in una sua analisi storica afferma che la carne di bufalo era addirittura conosciuta già in epoca romana e riporta che “i giudei della colonia ebraica erano soliti consumare questa carne nel primo giorno del loro anno accompagnandola con cavoli” secondo una loro tradizionale usanza. Da altre fonti viene riportato testualmente che ebrei residenti a Napoli e a Roma erano consumatori abituali di carne di bufalo, sia di animali adulti che di bufalotti. La prima presentava talvolta un sapore disgustoso definito “muschiatico”, la seconda era “assai pregiata e, mangiata inconsciamente, può senza dubbio passare per carne di bovino”. Veniva venduta sia fresca che affumicata e salata. (Zicarelli, 1990). Tale differenza di qualità e di giudizio tra la carne di un animale giovane e quella di in animale adulto è sicuramente da imputare al fatto che gli adulti macellati erano senz’altro animali a fine carriera, vecchi che avevano vissuto a lungo allo stato brado. Per evitare che queste frodi possano perpetuarsi nel tempo e per iniziare un’opera di valorizzazione della carne bufalina è stata proposta la creazione di un disciplinare che preveda la commercializzazione soltanto di soggetti il cui accrescimento non ha superato o non è risultato al di sotto di incrementi ponderali fisiologici, al fine di fornire al consumatore quelle garanzie di sicurezza che da anni richiede. L’anagrafe bestiame, che permette di risalire alla data di nascita, potrebbe essere uno strumento validissimo per verificare se il peso alla macellazione è in accordo con i suddetti accrescimenti. Questo rappresenta un target davvero indispensabile per il decollo del settore (Campanile et al., 2001b). A tal proposito è fondamentale considerare che, negli ultimi anni, si è registrata una disaffezione del consumatore nei riguardi delle carni storicamente utilizzate nell’alimentazione. In particolare per quella bovina hanno giocato un ruolo sfavorevole le modalità di allevamento, le notizie di accrescimenti ottenuti con sostanze potenzialmente dannose per la salute umana e le non remote vicissitudini relative alla BSE.
>E’ pertanto venuto progressivamente ad affermarsi, soprattutto in fasce elitarie del mercato, il consumo di carni alternative non tradizionali. Ciò ha fatto tornare di attualità le ricerche condotte sin dai primi anni ’60 presso il Dipartimento di Scienze Zootecniche e Ispezione degli alimenti, della Facoltà di Medicina Veterinaria di Napoli, ed i successivi contributi degli studiosi dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Roma e dell’ex Istituto di Produzione Animale – Facoltà di Agraria – sulle attitudini alla produzione carnea del bufalo mediterraneo allevato in Italia. Il patrimonio bufalino italiano, infatti, ammonta a circa 200 mila capi. Anche prevedendo un suo costante incremento negli anni a venire, esso comunque potrà fornire quantità di carne che contribuiranno in maniera marginale alla copertura dei consumi. Pertanto, è possibile ipotizzare una sua commercializzazione esclusivamente come carne a qualità garantita, intendendo per tale non solo le caratteristiche nutrizionali ed organolettiche, ma anche l’osservanza, in ogni fase della filiera produttiva, di rigorose norme a tutela della salute del consumatore e del benessere animale.
In maniera molto sintetica si può affermare che i maschi bufalini, rallentando più precocemente la velocità di accrescimento, sono raffrontabili ai vitelloni bovini di razza frisona fin quando il loro peso è inferiore a 4 quintali, fase in cui i soggetti delle due specie presentano: · incrementi giornalieri e indici di conversione degli alimenti che non differiscono in modo sostanziale (0.987 vs 0.949 kg/die, per i bovini e i bufali, rispettivamente); il bufalo fa comunque registrare minore resa al macello (60.5% vs 56.6%) a causa del maggiore peso di pelle, testa e zampi; · percentuale analoga di carne nelle carcasse (circa 62%), in quanto nei bufali si è registrato una minore incidenza delle ossa (16.9% vs 20.2%), ma una maggiore presenza di grasso (21.2% vs 18.1%). Il tessuto adiposo si distribuisce, tuttavia, in maniera differente: nel bufalo, infatti, nettamente minore è il grasso intramuscolare, e di contro superiore quello di copertura. Caratteristiche dietetico-nutrizionali della carne di bufalo Le caratteristiche nutrizionali e dietetiche della carne, almeno sotto alcuni aspetti, risultano migliori in quella di bufalo rispetto a quella bovina; il grasso, infatti, presenta maggiori contenuti di acido stearico ed oleico, neutri nei riguardi della colesterolemia umana, nonchè di acido linoleico che, in quanto poliinsaturo, può agire efficacemente nella riduzione della colesterolemia stessa (Ferrara e Infascelli, 1994).
Il contenuto di colesterolo del grasso intramuscolare bufalino è risultato pari a 41.3 ± 10.3 mg/100 g, nettamente inferiore a quanto registrato per diverse razze bovine (60-90 mg/100 g). Praticamente sovrapponibili sarebbero, nelle carni bovine e bufaline, i valori di pH e il tenore in protidi.
Relativamente allo schema proposto dalla F.A.O./O.M.S. l’equilibrio aminoacidico della carne di bufalo, rispetto a quella di bovino, è più rispondente alle esigenze dell’ alimentazione umana. L’ottimale livello di aminoacidi solforati registrato nella carne bufalina, infine, potrebbe farla preferire nel caso di diete miste a prevalente contenuto di alimenti di origine vegetale. Nelle carni bufaline, risultano apprezzabili i contenuti in ferro, zinco, cromo e rame: ricordiamo i favorevoli effetti che si vanno attribuendo ai primi tre elementi sul sistema immunitario. Scarsi appaiono, così come nella specie bovina, i contenuti in calcio. Va precisato, però, che in ogni caso i fabbisogni in calcio per l’uomo non si soddisfano con il consumo di carne.
Le differenze tra le due specie, per quanto riguarda il corredo vitaminico, sono unicamente imputabili ad una leggera deficienza di riboflavina nella carne bufalina che, al contrario, presenta un contenuto significativamete elevato in vitamina B6 e soprattutto in B12.Composizione acidica del grasso intramuscolare della carne di vitelloni bufalini
In questo paragrafo si è voluto approfondire, tra le caratteristiche dietetico-nutrizionali, quella relativa alla composizione acidica del grasso intramuscolare alla luce della notevole influenza che essa eserciterebbe sulla funzionalità dell’apparato cardio-circolatorio.
Gli acidi grassi alimentari hanno prevalentemente natura chimica di trigliceridi; essi, infatti, risultano costituiti per il 97-99% da esteri della glicerina (alcool trivalente) con tre molecole (per lo più differenti tra loro) di acidi carbossilici della serie alifatica. Tra le diverse funzioni svolte dagli acidi grassi, vanno ricordate quelle: energetica (9 kcal/gr); veicolante (vitamine, sostanze liposolubili); esaltazione del gusto (stimolazione dell’appetito); protettiva degli organi interni; termica (mantenimento della temperatura corporea); estetica (definizione della morfologia dell’organismo). Gli acidi grassi sono caratterizzati da diversa lunghezza della catena di atomi di carbonio e dalla presenza o meno di ramificazioni e/o doppi legami. In funzione di quest’ultimo parametro essi vengono classificati in: 1. saturi (Cn:0: privi di doppi legami); 2. monoinsaturi (Cn:1: con un solo doppio legame); 3. polinsaturi (Cn:2-3-4-5: con più di un doppio legame). Sulla base di numerose ricerche epidemiologiche, Sinclair (1956) mise in evidenza che diete ad elevato contenuto di acidi grassi saturi (AGS) erano associate ad alti livelli di colesterolo serico (in particolare LDL) e quindi all’insorgenza di placche ateromatose, causa di cardiopatie coronariche.
Successivamente Ulbricht et al. (1989) riportarono che: 1. diete ricche di C18:0, acido stearico, non determinano aumento del colesterolo serico; 2. analogo comportamento mostrano gli AGS a corta catena ( C10), mentre quelli a lunga catena, C12:0 (laurico), C14:0 (miristico) e C16:0 (palmitico) sono aterogenici. L’acido miristico, inoltre, presenta attività ipercolesterolemica quattro volte superiore rispetto a quello dell’acido palmitico (Hegsted, 1965). Venne inoltre dimostrata l’influenza del C14:0 (miristico), del C16:0 (palmitico) e del C18:0 (stearico), nel favorire la formazione di trombi, mentre agli acidi grassi poliinsaturi (PUFA) della serie omega-6 (ω-6), riconobbero una specifica funzione anti-aterogenetica e a quelli della serie omega-3 (ω-3) una evidente attività anti-trombogenica. Attualmente, infine, notevole risalto viene attribuito al ruolo svolto dagli acidi grassi monoinsaturi (MUFA), e in particolare dall’acido oleico (C18:1), in grado di ridurre l’ossidazione del colesterolo LDL (Parthasarathy et al., 1990). Alla luce di queste considerazioni, il solo rapporto acidi grassi poliinsaturi e saturi (P/S ratio) non viene più considerato un valido indice per la stima dell’aterogenicità o della trombogenicità di una dieta o di un alimento che vengono, pertanto, espresse come segue (Ulbricht e Southgate, 1991): Indice di aterogenicità: [C12:0 + (4 x C14:0) + C16:0]/[-3 + -6 + MUFA] Indice di trombogenicità: [C14:0 + C16:0 +C18:0]/[(0,5 x C18:1) + (0,5 x altri MUFA) + 0,5(-6) + 3(-3) + (-3/-6)] È necessario, quindi, correggere molti pregiudizi riguardo il ruolo dei lipidi alimentari che, per decenni, sono stati considerati dannosi alla salute al punto da arrivare ad escluderli completamente dalle diete destinate a soggetti affetti da patologie cardiovascolari. Oggi è possibile affermare che non tutti i grassi sono nocivi, anzi alcuni intervengono nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcuni tumori. In merito a quanto esposto è parso interessante riportare i i risultati di una indagine sperimentale che ha voluto confrontare la carne bufalina con quella di vitelloni di razza Marchigiana, notoriamente caratterizzata da elevate qualità dietetico-nutrizionali (Infascelli et al., 2005).
Longissimus dorsi per le due specie a confronto è illustrata in tabella 4. Dall’esame della tabella si evince che, mentre il contenuto in proteine è risultato sovrapponibile, i bufali hanno fatto registrare una minore concentrazione di lipidi (1.36 ± 0.1% vs 2.40 ± 0.6) per i quali va d’altro canto ricordato quanto citato nell’introduzione del presente volume circa la differente distribuzione del grasso nelle carcasse appartenenti alle specie bovina e bufalina; in quest’ultima, infatti, esso si concentra nel sottocute mentre scarsa è l’infiltrazione muscolare. La composizione acidica del grasso intramuscolare (tabella 5) è risultata notevolmente diversa tra le due specie. Infatti, nei vitelloni bufalini sono state registrate percentuali inferiori di acidi grassi saturi (AGS: 38.4 vs 46.6) e superiori di acidi grassi monoinsaturi (MUFA: 37.3 vs 31.1) e polinsaturi (PUFA: 24.3 vs 22.3). Di conseguenza, per il diverso peso che ognuna di queste categorie di acidi grassi esercita nelle formule per il calcolo sia dell’indice di aterogenicità che di quello di trombogenicità, questi ultimi sono risultati notevolmente più favorevoli nella specie bufalina (IA: 0.57 ± 0.06 vs 0.41 ± 0.04 e IT: 1.63 ± 0.13 vs 1.16 ± 0.13, per i marchigiani e i bufali rispettivamente).
In ogni caso i valori degli indici di aterogenicità e di trombogenicità fatti registrare dalle carni fornite dai vitelloni Marchigiani, risultano inferiori a quelli registrati per razze bovine non italiane con attitudine alla produzione della carne, il che conferma le buone qualità dietetico-nutrizionali della razza Marchigiana nell’ambito della specie.
I risultati esposti consentono di esprimere un giudizio sicuramente favorevole sulle caratteristiche dietetico-nutrizionali delle carni bufaline. Infatti, mentre il contenuto in protidi del muscolo Longissimus dorsi è risultato simile a quello registrato per i vitelloni Marchigiani, notevolmente interessanti appaiono i dati relativi al contenuto in lipidi, ma soprattutto quelli inerenti la composizione acidica del grasso. Quest’ultima, infatti, è apparsa nei bufali nettamente più favorevole e ha comportato valori molto bassi degli indici di aterogeneicità e di trombogenicità. Alla luce del crescente interesse del consumatore nei riguardi di alimenti che, al di là dei prerequisiti igienico-sanitari, siano in grado di esercitare un ruolo benefico sulla salute umana, i nostri risultati confermano le ottime potenzialità della carne bufalina che può quindi a pieno merito diventare competitiva sul mercato grazie alle sue caratteristiche qualitative superiori.
Gli studi spettrofotometrici rilevano nei muscoli la riflettanza, la brillanza o lucentezza visuale, la lunghezza d’onda dominante quale indice della tonalità di colore: per tutti questi parametri la carne fornita dai vitelli bufalini si è dimostrata in possesso di una maggiore componente neutra, risultando più chiara ed uniforme a livello dei diversi tagli, in confronto di quella dei vitelli bovini. I parametri reologici, determinati con l’ausilio del “texturometer” (strumento simulatore dell’azione masticatoria umana), in indagini comparative tra carne proveniente da vitelli bufalini e vitelli frisoni, macellati a 20 – 36 – 52 e 64 settimane di età hanno posto in evidenza che la carne bufalina è in ogni caso più tenera e richiede, quindi, un minore lavoro di masticazione. La maggiore tenerezza viene imputata al contenuto di idrossiprolina [64.6 ± 15.1 mg/100 g di muscolo fresco, sensibilmente minore di quanto registrato in vitelloni bruni (93.8 mg/100 g), frisoni (109.1 mg/100 g), Charollais (75.7 mg/100 g)]; questo iminoacido è incluso per il 13-14% nel collagene e quindi viene utilizzato come parametro per stimare indirettamente la tenerezza delle carni.
La carne bufalina, inoltre, presenta un maggiore potere di ritenzione idrica, risultando quindi, più succosa. Mediante cottura su piastra, abbiamo registrato il 31.0% di perdite di liquido per la carne bufalina contro il 33.7% e il 35.7% riportato da altri autori rispettivamente per vitelloni Charollais e Chianini.
Conclusioni
A fronte delle pregevoli caratteristiche organolettiche e nutrizionali, bisogna purtroppo registrare che ancora scarsa risulta la domanda di carne bufalina. Siamo, infatti, certi che gli italiani venuti a conoscenza, non tanto della qualità, ma soltanto della commestibilità della carne di bufalo, siano veramente pochi. E’ necessario che le organizzazioni degli allevatori e gli Enti pubblici territoriali all’uopo preposti colgano il momento congiunturale favorevole per espletare quelle azioni necessarie per inserire la carne bufalina in maniera stabile sul mercato: essa potrà così contribuire in maniera non trascurabile alla produzione lorda vendibile del comparto bufalino, rafforzandone il ruolo di primaria importanza che esso riveste quale fonte di reddito e di occupazione nelle aree di allevamento. Da sottolineare che la carne di bufalo, grazie alle sue caratteristiche qualitative, si presta bene come prodotto dietetico ed alternativo e presenterebbe il vantaggio/svantaggio dell’esiguità dell’offerta. Il patrimonio bufalino italiano, infatti, conta al più 120.000 fattrici che possono produrre annualmente, in considerazione di un interparto medio di circa 400 giorni, 96.000 vitelli, per il 52% maschi. Ipotizzando una mortalità neonatale del 10% e l’allevamento di tutti i maschi per il macello si avrebbe una disponibilità di circa 130 g che poco incide sugli 84 kg di carne che mediamente un italiano consuma.
Foto: Pixabay
Federico Infascelli