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Pane e Pace, è il sapere nostalgico a bloccare gli Ogm

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Pane e Pace è un libro di Antonio Pascale, agronomo, scrittore e giornalista che collabora con il Ministero delle Politiche Agricole, un libro che racconta il rapporto dell’uomo con il cibo e con l’agricoltura per cercare di capire le motivazioni alla base della ritrosia del popolo italiano nei confronti delle innovazioni in campo agricolo. L’accento cade, inevitabilmente, sul rifiuto delle piante geneticamente modificate che nel corso degli anni ha portato non solo al blocco della loro coltivazione, ma anche a seri problemi nell’ambito della ricerca scientifica. Secondo Pascale alla base di questo rifiuto ci sono, da un lato, la mancanza di informazioni su cosa siano realmente le piante geneticamente modificate e, dall’altro, lo stesso sapore nostalgico per cui, secondo molti italiani, “si stava meglio quando si stava peggio”.

 

Per spiegare i vantaggi dell’agrobiotech Pascale prende spunto da una conversazione con il figlio tredicenne. Reduce da un incontro con una dietologa fra i muri di scuola, il ragazzo ha spiegato al padre di aver appreso i principi di un’agricoltura buona e sostenibile: coltivazioni biologiche, acquisto di prodotti tipici e consumo a chilometro zero. Da qui le riflessioni di Pascale, secondo cui “l’agricoltura è cambiata tantissimo ma in un breve periodo. C’è la possibilità concreta che non ci ricordiamo più com’era magari solo quaranta, cinquanta, sessant’anni fa. La memoria si è perduta e al suo posto sono sorte immagini idealizzate perché, si sa, ogni rimozione genera un’idealizzazione”. E’ proprio qui che entra in gioco quel sapore nostalgico che, spiega l’autore, fa dimenticare che la storia delle famiglie italiane racconta che quando l’agricoltura era biologica perché non c’erano a disposizione pesticidi ed erbicidi, i prodotti erano tipici perché ognuno coltivava il suo orto sempre nello stesso modo e il consumo era a chilometro zero perché si trascorreva la maggior parte della vita là dove si era nati, le preoccupazioni maggiori erano il cibo e la fame. Pascale racconta che “il nonno anche sul letto di morte parlava di cibo. Il fatto è che i suoi prodotti erano sì tipici, coltivati con le sue mani nel suo piccolo orto, naturali e così via, ma non eccellenti. Né per quantità né per qualità”.

 

Passando in veloce rassegna le innovazioni del ventesimo secolo, l’autore non manca di ricordare che non sono solo pesticidi (meglio definiti agrofarmaci) o ingegneria genetica ad aver modificato l’agricoltura mondiale, ma anche la selezione operata dall’uomo incrociando le diverse varietà a disposizione per ottenerne di più resistenti o più produttive. In realtà, spiega Pascale, “scegliere un carattere perché sembra utile e vantaggioso per noi significa scegliere un gene (o più geni) che regola quel carattere. (…) Si tratta di ‘ingegneria genetica’”. Oggi questa “ingegneria genetica” ante litteram è ben accetta, anche se durante il fascismo l’agronomo Nazareno Strampelli, cui si deve gran parte del miglioramento genetico del frumento ottenuto con queste tecniche di incrocio tradizionale, dovette fare i conti contro ideologie molti forti che si opponevano a questo tipo di approccio.

 

In poche parole, sembra che in campo agroalimentare a sollevare paure e timori sia l’innovazione in quanto tale piuttosto che il contenuto dell’innovazione. Se a ciò si aggiungono la disinformazione e, ancora peggio, il passaggio di informazioni errate, è facile capire i motivi del rifiuto nei confronti degli Ogm. Quando si crede ciecamente ad esperti che definiscono le piante geneticamente modificate “organismi segretati” di cui non si conosce l’esatta natura mentre, in realtà, le caratteristiche genetiche di ogni Ogm coltivato sono ben note, oppure che parlano di piante generate utilizzando virus senza spiegare che, in realtà, non si tratta di piante infette, o, ancora, che attribuiscono ai semi Ogm l’appellativo di “Terminator”, il gioco è fatto e le piante geneticamente modificate finiscono inevitabilmente sulla gogna.

 

Ultimo aspetto molto interessante affrontato da Pascale è quello del monopolio delle multinazionali nel settore delle piante geneticamente modificate. “Se non si abbasserà la dose di paura che in genere le associazioni ambientaliste e la sinistra tendono a iniettare nel bravo consumatore, costui chiederà tanti costosi e inutili controlli e questi limiteranno l’accesso al mercato di altre aziende biotech – spiega Pascale -. Senza volerlo, i migliori alleati delle cattive multinazionali oggi sono i bravi ambientalisti”.

 

Foto: Pixabay

Silvia Soligon