Il 12 dicembre 2015 è stato raggiunto a Parigi, nel corso della 21a Conferenza delle Parti sul Clima delle Nazioni Unite (COP21), il primo accordo globale sui cambiamenti climatici.
L’obiettivo prioritario dell’Accordo è stato quello di trovare una risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici e di prevedere l’impegno della comunità internazionale a mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C – rispetto ai livelli pre-industriali -, cercando di puntare, tuttavia, al perseguimento di un obiettivo ben più ambizioso di 1,5°C.
In quest’ottica è stato previsto di rafforzate tutte le azioni di adattamento ai cambiamenti climatici e lo sviluppo delle tecnologie, evitando tuttavia di mettere a rischio la produzione alimentare, e mettendo in campo finanziamenti adeguati per agevolare la transizione, soprattutto nell’ottica di agevolare in questo processo i Paesi in via di sviluppo, per i quali si evidenziano le criticità maggiori.
Uno dei nodi politici più complessi del compromesso è stato rappresentato, infatti, dal perseguimento “differenziato” degli obiettivi ambientali che sono stati posti:
– per i Paesi in via di sviluppo è stata riconosciuta una responsabilità diversa rispetto ai Paesi sviluppati, in rapporto al contributo che questi devono dare per la riduzione delle emissioni e alle capacità di finanziamento per agevolare la transizione verso la così detta “decarbonizzazione”;
– per i Paesi sviluppati è invece previsto un impegno e un contributo maggiore, attraverso obiettivi di riduzione delle emissioni assoluti e applicati a tutta l’economia.
Ciò ha di fatto posto le basi per l’avvio di un sistema a doppia velocità, in cui viene di fatto concesso ai Paesi in via di sviluppo di raggiungere il picco massimo di emissioni più tardi rispetto a quelli sviluppati.
L’Accordo – che si compone di 29 articoli ed è preceduto da un numero di decisioni che sostengono il testo legislativo nei diversi articoli e chiariscono alcune modalità d’implementazione – contiene numerose clausole vincolanti ed altre facoltative: ai Paesi sviluppati vengono chiesti “obiettivi di riduzione”, mentre ai Paesi in via di sviluppo – specie quelli particolarmente vulnerabili – “sforzi di mitigazione”.
In ogni caso l’Accordo – per diventare effettivamente operativo – dovrà comunque essere ratificato dai Parlamenti nazionali e la sua entrata in vigore è subordinata alla ratifica da parte di almeno il 55% dei Paesi sottoscriventi, che a loro volta devono rappresentare complessivamente almeno il 55% delle emissioni di gas serra globali.
In linea generale va detto che per quanto riguarda il contenimento dell’aumento della temperatura di 1,5°C, benché fosse in discussione da diversi anni e rappresenti un’incognita notevole, è la prima volta che questo limite viene ufficialmente riconosciuto come obiettivo indicativo e come soglia che ridurrebbe in modo significativo i rischi di impatto dei cambiamenti climatici.
I Paesi firmatari dovranno rispettare una serie di impegni vincolanti per conseguire l’obiettivo globale di riduzione delle emissioni:
– l’obbligo di preparare, comunicare, adottare e mantenere i propri contributi nazionali (National Determined Contributions) di riduzione delle emissioni;
a partire dal 2023, l’obbligo di revisione ogni 5 anni dei contributi nazionali;
– i contributi nazionali non potranno essere rivisti verso il basso ma solo verso l’alto;
– l’obbligo di contabilizzare (“accounting”) i contributi nazionali, di emissioni e di riduzioni, secondo alcuni principi come l’integrità dal punto di vista ambientale, la trasparenza, l’accuratezza, la completezza, la comparabilità e la trasparenza, evitando la doppia contabilizzazione degli impegni di riduzione delle emissioni.
Anche in questo caso tuttavia resta il principio dell’approccio differenziato, quale caratteristica di questo Accordo. Infatti, i Paesi sviluppati dovranno contribuire in modo maggiore allo sforzo globale, attraverso “obiettivi di riduzione delle emissioni assoluti e applicati a tutta l’economia”; per i Paesi in via di sviluppo è, invece, richiesto di continuare ad aumentare i loro “sforzi di mitigazione” e vengono incoraggiati a “muoversi verso obiettivi di riduzione o contenimento applicati a tutta l’economia alla luce delle circostanze nazionali”.
Altro aspetto delicato dei negoziati sulla base dei quali è stato raggiunto l’Accordo è stata la parte finanziaria. Sotto questo profilo nell’Accordo non viene quantificata la cifra dei finanziamenti che dovranno essere mobilitati, tuttavia, anche per questo aspetto, è previsto un maggiore coinvolgimento per i Paesi sviluppati che devono impegnarsi ad assistere, sotto il profilo finanziario, i Paesi in via di sviluppo, sia sul fronte della riduzione delle emissioni (mitigazione) che degli adattamenti, con uno sforzo progressivo.
Al riguardo i Paesi in via di sviluppo (cosiddetti G77) hanno cercato di vincolare, fino all’ultimo, i progressi in direzione del rafforzamento della riduzione delle emissioni ad un aumento dei finanziamenti e il mancato riferimento ad una cifra definita è quindi da interpretare come una concessione fatta dai Paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati in cambio, però, di maggiori concessioni in termini di differenziazione. “Differenziazione” che si ritrova anche negli obblighi di trasparenza. Tutti i Paesi dovranno dare informazioni sulle emissioni nel loro territorio e sui progressi verso i rispettivi contributi nazionali, ma si lascia flessibilità ai Paesi in via di sviluppo in base alle proprie capacità, senza che ciò comporti azioni intrusive, punitive o onerose.
Va evidenziato che, pur nelle difficoltà e stante la necessità di accordare ai Paesi in via di sviluppo vincoli meno pesanti, l’Accordo è stato, comunque, accolto con soddisfazione da tutta la comunità coinvolta dal negoziato, industria europea inclusa, perché segna effettivamente una data cruciale dal punto di vista politico. Tuttavia, pur se l’Accordo rappresenta un innegabile successo – considerate anche le richieste avanzate dall’industria – restano molte le incognite sull’effettiva capacità di raggiungere gli obiettivi fissati, tenuto conto delle variabili che potrebbero condizionare e/o compromettere il risultato atteso.
Allo stato attuale, il primo scoglio da superare è la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali e, in seconda battuta occorrerà verificare le effettive misure che saranno messe in campo all’interno di ciascun Paese, che saranno sicuramente influenzate dalla sensibilità e dall’ambizione politica di ciascuno, ma – per alcuni – anche dalla pressioni esercitate dalla sensibilità sul tema sia delle rappresentanze economiche che dell’opinione pubblica interna.
Altro elemento di attenzione è il problema che l’UE ha sottoposto al tavolo del negoziato e che pone due differenti problemi per l’Unione:
– a livello internazionale, vi è il rischio che l’Accordo determini un ulteriore allargamento del gap di competitività relativa nei confronti dei Paesi non-UE, se questi non si avvicineranno rapidamente al livello europeo;
– a livello interno, vi è la possibilità che dietro le varie pressioni politiche interne, l’UE possa decidere di aumentare il suo obiettivo al 2030 o addirittura al 2020, grazie anche ad alcune disposizioni contenute nell’Accordo.
Per questo, l’Accordo rappresenta una sfida non solo sul piano ambientale ma anche per tutta l’economia europea ed in particolare per l’industria, per le sue forti implicazioni in termini di competitività, specie per quei settori che saranno più sottoposti ai maggiori obblighi di riduzione.
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Giulio Gavino Usai