Il conflitto in Ucraina ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica un problema che gli addetti ai lavori avevano denunciato da tempo, quello dell’approvvigionamento di materie prime agricole dell’Italia. Il tema è emerso in misura di gran lunga maggiore di quanto non fosse successo con la recente pandemia. La produzione interna è insufficiente a soddisfare il fabbisogno di prodotti chiave, come il mais per esempio, e così il settore primario italiano, la zootecnia, l’agroalimentare dipendono dalle importazioni di commodities dall’estero. Tra i Paesi ai quali l’Italia si rivolge c’è l’Ucraina, uno dei maggiori esportatori di cereali su scala globale proprio insieme alla Russia. Questa situazione ha aperto la discussione sulle soluzioni che il settore può mettere a punto per allentare la dipendenza dall’estero, oltre a sollevare qualche timore per la sicurezza alimentare. “La guerra – spiega Ivan Cremonini, direttore commerciale di Cai-Consorzi agrari d’Italia – ci ha insegnato che occorre impegnarsi a fondo per limitare la nostra dipendenza dai Paesi esteri, sia a livello energetico sia a livello alimentare”.
La crisi delle materie prime è mondiale e antecedente allo scoppio del conflitto in Ucraina. L’incremento delle quotazioni risale alla metà del 2020, dalla ripresa degli acquisti cinesi (import di mais più che raddoppiato nel 2020 e ancora di più tra gennaio e novembre 2021) e dal primo rimbalzo post-pandemico. A quelle tensioni si sono aggiunti però gli sconvolgimenti nell’Est Europa in un’area nevralgica per il commercio dei cereali. Dalla Russia, ad esempio, proviene il 20% di tutto il grano tenero mentre è ucraino il 15% di tutto il mais e la metà dei panelli di estrazione di girasole. A marzo la Fao ha registrato il livello più alto mai raggiunto (dal 1990) dell’indice dei prezzi dei cereali, con un rialzo del 17,1% su febbraio. Proprio per effetto dell’interruzione della catena dell’export dall’Ucraina, soprattutto, e dalla Russia. Per l’atteso calo dell’export del mais ucraino, oltre che per gli aumenti dell’energia e degli altri input, il suo prezzo è aumentato del 19,1% su base mensile. La già ridotta disponibilità di grano, insieme alle conseguenze del conflitto e ai timori sulle condizioni della coltura negli Usa sono invece alla base di un incremento del 19,7% del prezzo del grano.
Alla luce delle relazioni commerciali con Kiev l’Italia ha mostrato le sue vulnerabilità. L’Ucraina è il secondo fornitore di mais, dopo l’Ungheria, e il terzo di panelli di estrazione di girasole. Per l’Italia le importazioni di mais sono significative, poco meno della metà della domanda interna, e dall’Ucraina arriva il 15% di tutto il volume. Una percentuale che si è ridotta solo di recente, come ricorda Ismea. Prima del 2020, infatti, il peso del mais ucraino rappresentava addirittura il 20%. La forte dipendenza dall’estero, con l’esposizione alla volatilità e alle fibrillazioni dei mercato, ha messo sotto pressione la mangimistica e la zootecnia italiane. Nella quarta settimana di marzo Ismea ha rilevato un prezzo della granella di mais pari a 397,88 euro/t, in leggero calo settimanale ma dopo un aumento mensile del 37,5%.
Gli interventi per il settore
Rimediare a questa situazione di subordinazione alle produzioni estere di materie prime agricole, mais in particolare, è quanto mai urgente. “Certamente l’unica soluzione su cui abbiamo il dovere di lavorare è quella di aumentare le produzioni e mantenere invariato l’alto standard qualitativo delle stesse. Allo stesso tempo, però, bisogna puntare sui contratti di filiera perché gli agricoltori devono avere la certezza e la tranquillità di poter produrre e di poter essere remunerati per il loro lavoro quotidiano”, sostiene Cremonini. “Proprio alle aziende agricole – continua – si chiedono investimenti importanti, in questo periodo di forte instabilità e costi aziendali esorbitanti, per recuperare maggiori superfici coltivabili e aumentare le produzioni nazionali di prodotti agricoli, quindi è fondamentare avere la certezza che queste maggiori produzioni siano assorbite dai mercati”.
La necessità di recuperare superfici coltivabili è stata avvertita e recepita a livello europeo. Tra le misure anti-crisi l’Ue ha previsto infatti una deroga eccezionale e temporanea per consentire la produzione di tutte le colture alimentari e correlate ai mangimi sui terreni a riposo. Una misura utile, da accompagnare però ad altri interventi per incrementare la produzione cerealicola italiana nel lungo periodo. Ma in che modo? “Innanzitutto aumentando le superfici coltivabili, in tal senso il via libera Ue alla coltivazione di nuove superfici è un primo passo, anche se da solo non può bastare per recuperare il gap di anni e anni di mancati investimenti. Poi bisogna puntare – ribadisce Cremonini – sui contratti di filiera che sono l’unica soluzione in grado di garantire tutti, dal produttore al consumatore. Come Consorzi agrari d’Italia lavoriamo ogni giorno, col nostro servizio di Ricerca&Sviluppo e Agricoltura 4.0, a soluzioni innovative attraverso prodotti e servizi in grado di aumentare le rese e diminuire i costi aziendali”.
Il mais è un cereale fondamentale per l’alimentazione animale e la produzione zootecnica, con particolare riferimento alle produzioni d’eccellenza dei formaggi e salumi Dop. Lo è insieme alla soia che, come il mais, viene massicciamente importata e che, sempre come il mais, ha conosciuto di recente rilevanti aumenti di prezzo (706,75 euro/t nella quarta settimana di marzo, +11% su base mensile). A proposito degli effetti della guerra in Ucraina, Ismea ha chiaramente parlato dell’alimentazione animale come “il settore più colpito per l’Italia”. Di conseguenza a soffrire è anche la zootecnia, gravata come tutta la manifattura dagli aumenti degli input produttivi. Anche questo comparto ha bisogno di interventi e riforme per assicurarsi prospettive migliori: “Le notizie che vengono dall’Europa non sono positive con la nuova proposta di direttiva che estende una serie di pesanti oneri burocratici a quasi tutti gli allevamenti dei settori suinicolo, avicolo e bovino che vengono considerati alla stregua di stabilimenti industriali e dovranno sottostare a rigide norme in materia di controlli ed autorizzazione con livelli di burocrazia e costi insostenibili soprattutto per alcune realtà marginali situate nelle aree interne”, spiega Cremonini. “Serve la massima responsabilità delle istituzioni ed è fondamentare garantire, anche alla luce del fatto che siamo un Paese importatore netto, che le regole siano sempre valide per tutti i Paesi produttori e siano soprattutto sempre uguali per tutti”.
“È necessario – conclude il rappresentante dei Consorzi agrari d’Italia – che si prenda coscienza del valore di questo settore per gli allevatori, per i consumatori e per l’indotto. Il sistema di allevamento italiano che per sicurezza, sostenibilità e qualità non ha eguali al mondo, si è consolidato anche grazie a iniziative di valorizzazione messe in campo dagli allevatori, con l’adozione di forme di alimentazione controllata, riduzione dei farmaci, disciplinari di allevamento restrittivi, sistemi di rintracciabilità elettronica e forme di vendita diretta, che non possono essere messi assolutamente in discussione”.
di Vito Miraglia
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