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Cristiano Fini (Cia-Agricoltori italiani): “Agricoltura italiana a un punto di non ritorno. Avanti con le Tea, basta accanimento verso la zootecnia”

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di Salvatore Patriarca, Redazione

Dalla fragilità del Green Deal Ue, al dramma della pandemia, alle ripercussioni della guerra Russia-Ucraina, fino ad arrivare agli effetti sempre più evidenti dei cambiamenti climatici, il sistema agroalimentare italiano sta attraversando una fase complessa. Diverse sono le azioni da mettere in campo per il benessere del settore, spiega a Mangimi&Alimenti Cristiano Fini, presidente nazionale di Cia-Agricoltori Italiani: dal supportare le tecnologie di evoluzione assistita, al rimettere al centro il reddito degli agricoltori, fino a definire nuove strategie per un’Europa sempre meno dipendente dalle importazioni e che consentano, oltre allo sviluppo produttivo, il sostegno all’innovazione e alla transizione verde. Quanto alla filiera zootecnica, afferma l’imprenditore modenese già presidente di Cia Emilia-Romagna e Cia Modena, “è fondamentale un cambio di comunicazione” poiché “nonostante sia un settore strategico per l’economia nazionale, deve ancora difendersi da visioni allarmistiche e messaggi fuorvianti”.

Presidente Fini, da oltre due anni è alla guida di Cia-Agricoltori Italiani. Dal suo osservatorio, come vanno le cose per il settore?

L’agricoltura italiana, e direi europea, è a un punto di non ritorno. Lo abbiamo detto più volte, ma lo sottolineo questa volta proprio perché vorrei che fosse un’occasione per dare un senso vero a tutti i grandi obiettivi che ruotano intorno alla sfida ambiziosa di conciliare sostenibilità economica, ambientale e sociale. Il mio mandato in Cia ha dovuto affrontare da subito la fragilità del Green Deal Ue, dovendo fare i conti con il dramma della pandemia, le ripercussioni della guerra Russia-Ucraina e gli effetti sempre più evidenti dei cambiamenti climatici.

L’azione confederale ha fatto quadrato intorno alle emergenze e soprattutto alle strategie da adottare, puntando sull’ascolto degli agricoltori e sul dialogo costante con le istituzioni nazionali e Ue per le quali abbiamo rispettivamente formulato un Piano nazionale per l’agricoltura e l’alimentazione e un Manifesto per l’Europa. Pilastri portanti del futuro che vogliamo per il comparto e che oggi sostengono anche il valore della nostra manifestazione in piazza a Roma.

Allo stato attuale il comparto agricolo non riesce più a garantire le produzioni perché la crisi climatica e quella economica hanno drasticamente indebolito il reddito degli agricoltori e la capacità di fare impresa. Dunque non si può più tergiversare sull’urgenza di fornire strumenti adeguati a supporto del settore, misure e risorse per agevolarne la transizione senza pregiudicare la tenuta delle imprese. Quindi, ad esempio, avanti con le Tea, con un piano organico per la gestione comune della risorsa acqua e basta accanimento nei confronti della zootecnia, quando in Europa l’incidenza degli allevamenti sulle emissioni complessive è del 7%. Su queste e altre questioni siamo pronti a confrontarci con il nuovo commissario Ue per l’Agricoltura, Christophe Hansen, e con il vicepresidente supervisore sul settore, Raffaele Fitto.

Entriamo più nel dettaglio pensando, appunto, alla questione alimentare tornata al centro del dibattito pubblico. Qual è lo stato di salute della produzione agricola italiana? E, di riflesso, quella alimentare?

Come accennavo, negli ultimi anni le crisi di natura climatica, energetica e geopolitica hanno esercitato una pressione sulla competitività del settore agricolo senza precedenti. Le conseguenze delle forti precipitazioni con carattere alluvionale, che sono seguite a lunghi periodi di siccità, hanno eroso gli output produttivi degli agricoltori e compromesso ulteriormente la sostenibilità ambientale, economica e sociale dei territori. La crisi energetica e le tensioni sui mercati internazionali si sono tradotte in una forte crescita dei costi di produzione, tanto da mettere a rischio l’autoapprovvigionamento alimentare. Per avere qualche dato di riferimento: quest’anno, solo in Sicilia, la siccità ha fatto quasi 3 miliardi di danni, mentre l’alluvione del 2023 in Emilia-Romagna ne conta oltre 900 milioni, tenendo ancora fuori dal conteggio i danni del mese di settembre di quest’anno. Quanto all’aumento dei costi di produzione, durante la prima fase del conflitto Russia-Ucraina e, comunque, nel post pandemia, abbiamo avuto dal +170% dei concimi al +300% delle bollette. Tutto ciò ha riportato al centro del dibattito pubblico la questione agricola e alimentare e la situazione attuale del settore è, inevitabilmente, influenzata da tali dinamiche.

Alcuni comparti strategici del Made in Italy agroalimentare sono connotati da un preoccupante calo delle rese produttive agricole. La situazione è particolarmente allarmante nel Mezzogiorno dove la siccità ha compromesso i raccolti di cereali e le produzioni ortofrutticole con cali medi produttivi del 30-40% e punte massime di oltre il 50%, ad esempio, per il frumento duro. Anche le previsioni per la campagna olearia lasciano presagire numeri preoccupanti sul fronte quantitativo. Ciò determina una contrazione dei margini reddituali nonostante, in alcuni casi, i prezzi all’origine abbiano ripreso a salire. Nei casi in cui le produzioni riescono a tenere sul fronte quantitativo, spesso i prezzi corrisposti agli agricoltori sono insufficienti per assicurare loro un’adeguata sostenibilità economico-finanziaria. Ciò che occorre è rimettere al centro delle politiche il reddito degli agricoltori contribuendo ad avviare, concretamente, il necessario riequilibrio della distribuzione del valore lungo la filiera agroalimentare. 

Il deficit produttivo è un tema che ricorre spesso quando si fotografa la situazione nazionale. Quali sono le strategie da introdurre per superare questa debolezza e garantire la richiesta di prodotto italiano che esiste sui mercati internazionali?

Il tema della sicurezza alimentare sta caratterizzando i dibattiti di questi mesi in tutta Europa. Il deficit produttivo, di fatto, va considerato a livello Ue e non solo nazionale. Per questo, dunque, è necessario definire delle strategie politiche, in primis europee, che siano in grado di garantire il giusto approvvigionamento per rendere l’Europa sempre meno dipendente da eventuali importazioni da Paesi terzi, in particolare per quanto riguarda le proteine vegetali, imprescindibili per il settore zootecnico. Non si possono pensare politiche Ue che minano la competitività delle imprese e costringono a un abbandono delle attività per mancanza di redditi adeguati.

A livello nazionale, poi, non è più pensabile continuare a immaginare lo sviluppo della nostra agricoltura senza definire una vera e propria strategia come Paese, che identifichi le priorità settoriali, le giuste politiche e i necessari investimenti per sostenere l’imprenditorialità del comparto e garantire che il prodotto italiano possa avere i giusti riconoscimenti anche sul mercato internazionale. Servono interventi di filiera che incentivino gli investimenti e garantiscano maggiore produzione. In tal senso rappresentano un’opportunità le aggregazioni tra produttori, così come tutte le soluzioni tecnologiche e innovative sviluppate negli ultimi anni per l’agricoltura.

Che ruolo deve svolgere l’Europa nella costruzione di un’economia verde, sostenibile, sicura e con slancio produttivo? La nuova politica agricola comune va nella giusta direzione o serve altro?

Ripeto: l’Europa deve cambiare passo. Non può rivendicare una leadership nella sostenibilità se questo comporta la perdita di competitività, la riduzione della produzione e, quindi, il contradditorio aumento delle importazioni. È sotto gli occhi di tutti che molte delle politiche degli ultimi cinque anni hanno avuto ripercussioni negative sui diversi settori economici, compresa l’agricoltura che ne è uscita danneggiata anche in termini di reputazione. Pensiamo alla legge sul ripristino della natura. Chi più di un agricoltore ha necessità di preservare la biodiversità e l’ambiente, elementi imprescindibili ai fini della produzione agricola? Eppure, l’Europa ha proposto un ripristino non governato con eventuali conseguenze pessime anche per l’ambiente. Deve cambiare la narrativa che è stata costruita negli ultimi anni dall’Ue e questa deve riconoscere la centralità del settore per lo sviluppo di una maggiore sostenibilità produttiva e per la gestione del cambiamento climatico.

E ancora, le politiche per l’energia e quelle per lo sviluppo del digitale e dell’innovazione dovranno tener conto delle opportunità per tutti i settori economici, in un’ottica di crescita collettiva per rilanciare la competitività dell’Ue. L’attuale Pac, poi, ha decisamente dimostrato forti limiti nella propria implementazione, tanto da costringere gli agricoltori Ue a scendere in piazza per dimostrarne l’inadeguatezza. Sicuramente colpevole anche la mancanza di una strategia nazionale poco incentivante e complicata a livello burocratico. Abbiamo bisogno di una politica Ue che consenta lo sviluppo produttivo, attraverso nuovi investimenti a sostegno dell’innovazione per avanzare sulla transizione verde, politiche più ambiziose di gestione delle crisi che possano dare risposte concrete alle sfide del cambiamento climatico. Serve una politica economica che renda le aziende competitive e che incentivi il rinnovo generazionale, anche attraverso il rilancio delle aree rurali.  

La zootecnia rappresenta una parte importante dell’agroalimentare nazionale (secondo il rapporto FeedEconomy Assalzoo si parla di oltre 130 miliardi di fatturato). E tuttavia, spesso, per il suo carattere commisto (crocevia di commodity agricole, allevamento, trasformazione industriale) tende a essere sottorappresentata. Anche in considerazione del suo osservatorio privilegiato in Cia, quale sono le azioni che servono alla filiera zootecnica italiana per essere finalmente considerata protagonista?

La prima azione è quella di cambiare la comunicazione relativa alla filiera zootecnica, vittima di semplificazione, ideologismi e fake news. Nonostante sia un settore strategico per l’economia nazionale, come dimostrano i dati della FeedEconomy, e sebbene abbia compiuto enormi passi avanti anche sulla strada della sostenibilità, arrivando a pesare appena il 5,2% sul totale delle emissioni di CO2 che si riversano sull’ambiente, deve ancora difendersi da visioni allarmistiche e messaggi fuorvianti non suffragati dai dati, che incidono negativamente sulla filiera e sui consumatori. La zootecnia affronta una doppia sfida: da una parte c’è la richiesta di aumentare la disponibilità di alimenti di origine animale per soddisfare le esigenze nutrizionali di circa 8 miliardi di persone, dall’altra ci sono tutte le sfide legate alla tutela della biodiversità, ai cambiamenti climatici, alla salute e al benessere animale. Per questo la filiera zootecnica può diventare centrale nell’agroalimentare continuando a migliorare la qualità e la sostenibilità dei nostri allevamenti grazie alle nuove tecnologie sulla base dei più elevati standard scientifici, ma è necessaria una visione dell’agricoltura che tuteli l’ambiente senza penalizzare la produzione. A tal fine, per rispondere alle sfide ambientali richieste dai consumatori, è necessaria una forte azione strutturale di rilancio del settore con strumenti e risorse adeguate puntando su innovazione, ricerca e nuove tecnologie, con l’obiettivo di impattare sempre meno sul clima, ma tutelando al contempo competitività, reddito e qualità. Tanto è stato fatto nel corso degli ultimi anni per rendere la zootecnia sempre più sostenibile, affidabile dal punto di vista sanitario e rispettosa della salute e del benessere animale, ed è bene comunicarlo ed evidenziarlo correttamente ai cittadini: un percorso che dovrà essere condiviso tra istituzioni e operatori della filiera.

Presidente, per chiudere, un’urgenza per l’agricoltura che tiene Cia in grande allarme?  

La gestione della fauna selvatica e della peste suina. Rivendichiamo una lunga battaglia a tutela degli agricoltori e degli allevatori per la sicurezza pubblica e la tutela del territorio. I danni causati dagli animali selvatici – i cinghiali liberi di scorrazzare in tutta Italia ormai sono oltre 2 milioni – sono diventati insostenibili e hanno assunto una dimensione multiambito: sul piano economico produttivo, poiché l’attività agricola è a rischio in molte zone e i fenomeni di abbandono imprenditoriale sono sempre più diffusi; sul pano ecologico/ambientale, perché crescono i disequilibri tra le specie; sul fronte salutistico, poiché vediamo la diffusione di malattie come la peste suina africana (Psa) – nel giro dell’ultimo mese la situazione è fortemente precipitata, con 50 focolai registrati negli stabilimenti del Nord Italia e oltre 70 mila capi abbattuti – e l’influenza aviaria; in termini di sicurezza, perché crescono in maniera esponenziale anche i fenomeni di aggressione e gli incidenti stradali.

È evidente l’inefficacia delle politiche passate, orientate a una mera conservazione della fauna; diviene urgente, quindi, un percorso efficace di gestione. Si tratta di un’emergenza per cui servono strumenti straordinari, guidati da una chiara operatività, soprattutto per la lotta alla Psa, con interventi rapidi, concreti ed efficaci, un maggior coordinamento e risorse per la messa in sicurezza del sistema produttivo da cui dipendono importanti Dop e Igp dell’agroalimentare Made in Italy. Il comparto suinicolo nazionale conta 26 mila aziende e un valore di oltre 13 miliardi di euro tra produzione e industria. La Lombardia, dove sono stati individuati 20 focolai, conta più del 50% del totale degli allevamenti suinicoli nazionali. Abbiamo recentemente incontrato, in Cia, il nuovo commissario per la Psa, Giovanni Filippini, con il quale continueremo a dialogare per arrivare insieme a interventi che mettano al riparo gli allevatori. Accelerare e intensificare le operazioni di contenimento dei cinghiali per noi resta cruciale.