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Del Bravo (Ismea): “Da contratti di filiera vantaggi per tutti i partecipanti a catena del valore”

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Produzioni stabili rispetto agli ultimi anni, necessità di promuovere i contratti di filiera, maggiore collegamento della ricerca. Mangimi&Alimenti fa il punto della situazione nel settore cerealicolo con Fabio Del Bravo, responsabile della Direzione Servizi per lo Sviluppo rurale dell’ISMEA.

Come sono andati nel loro complesso i raccolti di materie prime nella primavera/estate del 2019?

Purtroppo l’assenza di un completo presidio statistico di monitoraggio terzo e affidabile sul settore dei cereali non consente di avere ancora dati definitivi sufficientemente robusti sui raccolti nazionali. Questo è un tema su cui la filiera dovrebbe riflettere seriamente perché avere informazioni oggettive, solide e per tempo potrebbe costituire un contributo importante a pianificare le scelte imprenditoriali oltre che accrescere la trasparenza del settore, evitando comportamenti speculativi. Detto questo, in linea di massima, quello che si profila per i raccolti 2019 è una sostanziale tenuta delle produzioni rispetto agli ultimi anni. Le superfici complessivamente destinate ai cereali sono rimaste pressoché stabili a circa 2,9 milioni di ettari (+0,2% sul 2018), per raccolti che dovrebbero aggirarsi intorno a 15 milioni di tonnellate (+2,3%).

Anche in questa annata, il protagonista è stato il clima. Infatti, il decorso climatico durante il ciclo produttivo è stato caratterizzato da piogge invernali molto sostenute durante la semina del frumento tenero, frumento duro e orzo, e anche in primavera durante la semina del mais. Le piogge, che non hanno agevolato l’entrata in campo, e le basse temperature della primavera hanno contribuito a determinare un leggero ritardo della maturazione della granella e quindi della fase di raccolta. Si tratta tuttavia di un’osservazione generale che andrebbe poi declinata territorio per territorio. È ormai sempre più evidente, infatti, che non solo bisogna fare i conti con fenomeni meteo-climatici estremi sempre più frequenti, ma questi si presentano con connotazioni molto diverse nei differenti territori, anche contigui. Per esempio si sono verificati dei fenomeni particolarmente intensi in alcuni areali della Puglia che hanno addirittura compromesso il raccolto di frumento duro a causa del forte e diffuso allettamento delle colture.

D’altro lato, c’è da dire che in una valutazione generale a livello nazionale non emergono situazioni particolarmente critiche, specie sulla qualità dei raccolti; le informazioni, ad oggi disponibili solo per il frumento duro, evidenziano livelli di proteine compresi tra l’11 e il 12%, valori da ritenersi nella norma per la produzione nazionale. Certamente, proprio a causa di quanto detto in precedenza, è verosimile che vi siano situazioni locali che presentino oscillazioni rilevanti – in positivo e in negativo – rispetto ai valori medi.

Provando a isolare le singole voci, qual è quella che ha più sorpreso in positivo?

Nello specifico dei singoli comparti, si dovrebbe registrare una lieve contrazione del raccolto di frumento duro rispetto ai 4,2 milioni di tonnellate del 2018, compensato da un incremento di produzione di frumento tenero rispetto ai 2,8 milioni di tonnellate sempre del raccolto precedente. In definitiva, è una campagna dalla quale non si attendono grosse sorprese. Le variazioni di superfici, raccolti e rese sono piuttosto limitate per tutti i cereali. In particolare, il frumento duro dovrebbe registrare solo una lieve flessione delle superfici che si attestano a 1,2 milioni di ettari (-2,6% sul 2018), i raccolti a 4 milioni di tonnellate (-2,5%) con rese mediamente stabili a 3,2 t/ha (+0,1%). Per il frumento tenero le attese sono di una superficie coltivata pari a 544 mila ettari (+0,2%), raccolti pari a 2,8 milioni di tonnellate (+1,1%) e rese 5,2 t/ha (+0,9%). Ma, per quanto detto in precedenza, valori medi assumono e assumeranno sempre meno significatività proprio per la variabilità territoriale delle situazioni.

Quale invece la coltura che ha dato i segni più preoccupanti o meno positivi? E’ forse il mais?

Il mais merita un ragionamento a parte in considerazione del percorso di forte riduzione che da alcuni anni caratterizza questa coltura. Le motivazioni del progressivo abbandono del mais a livello nazionale vanno ricercate innanzitutto nelle condizioni climatiche sempre meno favorevoli e il relativo aumento del rischio sanitario a causa delle micotossine a cui sono esposte sempre più frequentemente le nostre produzioni. C’è poi l’aspetto che riguarda l’alto costo di produzione che ha spinto molti agricoltori a prediligere alternative come per esempio la soia, non di rado più remunerativa rispetto al mais. Parallelamente, a ciò si aggiunga che negli ultimi anni si è registrata una contrazione a livello internazionale dei prezzi della granella aumentando la pressione competitiva sul prodotto. Tutte queste ragioni hanno portato alla dinamica produttiva degli ultimi anni che ha mostrato un andamento fortemente flessivo, sia per le superfici investite sia per i raccolti. Nel dettaglio le superfici destinate al mais da granella sono scese da 1,06 milioni di ettari nel 2000 a 591 mila ettari nel 2018, pari a 437 mila ettari in meno; la produzione di granella invece è passata, nello stesso periodo, da 10 milioni di tonnellate a 6,2 milioni di tonnellate, che significa la perdita di 3,97 milioni di tonnellate. Nel 2019 sembra profilarsi una piccola ma importante interruzione di questa vera e propria debacle con una leggera crescita sia degli investimenti (623 mila ettari, +5,4% sul 2018) che di raccolti (6,5 milioni di tonnellate, +5,3%).

Il trend generale della produzione italiana di materie prime è in decrescita. Quali sono i possibili strumenti da utilizzare per invertire questa dinamica?

È inutile girarci attorno, fare reddito producendo materie prime di base senza entrare nel circuito virtuoso di filiere ad alto valore aggiunto è sempre più difficile per un’agricoltura dai costi di produzione alti e dalle strutture mediamente piccole come quelle italiane. Una bassa redditività che spesso ha attivato – in una spirale negativa – la sequenza: bassa qualità-scarsa remunerazione-stasi o riduzione degli investimenti-abbassamento ulteriore della qualità-riduzione ulteriore della remunerazione. In tale contesto risulta difficile cogliere le opportunità nell’ambito di questa importante filiera per consentire all’imprenditore agricolo un’adeguata valorizzazione sul mercato della propria produzione e il suo orientamento alla domanda delle industrie di trasformazione. Potenzialità ne esistono, se non altro perché stiamo parlando di una filiera – quella dei cereali – alla base di produzioni di grande rilevanza per il made in Italy agroalimentare e per le quali l’Italia presenta un tasso di autoapprovvigionamento di materia prima piuttosto basso.

L’ISMEA ha evidenziato, attraverso uno studio recente, come promuovere i contratti di filiera/coltivazione presenta grandi vantaggi per tutti i partecipanti alla catena del valore favorendo il dialogo tra gli attori, la condivisione degli obiettivi e dei parametri tecnici attraverso disciplinari di produzione e, quindi, la possibilità di trasformare il tutto in una premialità di prezzo anche per l’agricoltore. C’è poi il tema della conservazione della qualità prodotta in azienda che coinvolge lo stoccaggio, ruolo nodale tra produzione agricola e utilizzi industriali. Si tratta di una delle maggiori criticità della filiera, essendo i centri di raccolta spesso obsoleti e di piccole dimensioni, non in grado di consentire la differenziazione della granella per partite qualitativamente omogenee. Senza volere esagerare in indicazioni, credo che un ulteriore cenno debba essere fatto riguardo ad un maggiore collegamento con la realtà produttiva della ricerca: aumento rese, miglioramento genetico, resistenza a stress idrici, individuazione e adozione di sistemi di coltivazione più sostenibili, sono tutte tematiche dove comincia a sentirsi l’esigenza di approfondimenti.

L’utilizzo delle nuove tenologie (Nbt) potrebbe essere una soluzione praticabile per il contesto agricolo italiano?

Nonostante si prospettino alcune possibili opportunità, è inutile illudere o illudersi senza prima avere affrontato l’esigenza di fare chiarezza riguardo le definizioni, le direttive e i regolamenti di applicazione e i conseguenti protocolli per la verifica sperimentale in campo delle applicazioni delle nuove tecniche di selezione e miglioramento vegetale. È probabilmente poco utile continuare a fare battaglie e rivendicazioni sul passato che rischiano di distogliere energie dai problemi reali e dal futuro. È evidente che bisogna aiutare il comparto a essere competitivo nel rispetto di tutte le declinazioni della sostenibilità: sociale, ambientale ed economica. Non è escluso che la ricerca in futuro possa riservare in questo senso delle positive sorprese che magari trovino anche favorevole accoglienza da parte del consumatore che, non ci dimentichiamo, è quello che in ultimo decide del successo o dell’insuccesso di un prodotto.

Vito Miraglia