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I paradossi italiani che minano la competitività

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In questo numero di Mangimi&Alimenti ospitiamo un approfondimento dedicato alle biotecnologie e agli Organismi geneticamente modificati, tema sul quale negli ultimi mesi si è aperto un confronto che speriamo possa portare a maggiore chiarezza e nuovi sviluppi. Spetta, infatti, ai ricercatori il compito di fornirci elementi di prova basati sul metodo scientifico e i suoi principi di rigore e replicabilità.

 

C’è soddisfazione, quindi, nell’apprendere che uno dei più ampi studi finora condotti – di cui diamo nota in questo numero –, prendendo in esame tre decenni di ricerche, ribadisca che nessuna differenza nutrizionale è individuabile nei prodotti derivati da animali allevati con mangimi OGM rispetto a quelli nutriti non con OGM. A noi resta il compito di riflettere sul peso economico di scelte politiche che stanno aprendo un divario incolmabile tra l’Italia, parte dell’Europa e il resto del pianeta.

 

A livello globale, i Paesi principali produttori ed esportatori di materie prime per l’alimentazione animale – soprattutto soia, mais, colza e cotone – coltivano per la maggior parte colture OGM, tanto che le varietà non OGM costituiscono, ormai, una quota tra il 20% e il 10%, in progressiva ed inesorabile diminuzione. Del resto la ricerca scientifica nel campo delle biotecnologie è in continua evoluzione e ogni anno sforna nuovi eventi GM, tanto che nei Paesi dove tale ricerca ha luogo vengono registrati ogni anno decine di nuovi GM, sempre più evoluti ed in grado di soddisfare le esigenze sia degli agricoltori, che chiedono varietà in grado di assicurare maggiori rese e quindi maggiore reddito, sia dal mercato che esige una quantità e una qualità sempre maggiori delle produzioni e prezzi accessibili.

 

Così, mentre il Mondo va avanti e cerca di trovare soluzioni alla crescente richiesta di cibo e alla sostenibilità della produzione, con costi accessibili a tutti, in una parte d’Europa, e soprattutto in Italia, continua a permanere un atteggiamento ambiguamente contrario all’innovazione in agricoltura, che in un primo momento richiamava una presunta, e mai dimostrata, pericolosità degli OGM e poi, come avviene più di recente, si fonda su presunti pericoli per l’ambiente, per la biodiversità, per la tipicità o peggio per la qualità delle produzioni alimentari che ne derivano, anche in questo caso senza riscontro della scienza. Un atteggiamento davvero paradossale se si considera che nel nostro Paese la rinuncia all’innovazione in agricoltura ha determinato una progressiva perdita della capacità produttiva sia di materie prime per l’alimentazione animale che umana.

 

Ciò nonostante incentiviamo sistemi di produzione che generano rese addirittura ancora più basse ed in conflitto con lo stesso criterio della sostenibilità (come il caso biologico), spesso finanziate con sovvenzioni pubbliche, da cui derivano produzioni non solo inferiori ma notevolmente più costose per i consumatori. Sistemi di produzione che dovrebbero appartenere alla libera scelta di ognuno ma che invece l’Italia sembra intenzionata, addirittura, a fare diventare una priorità del suo semestre di Presidenza dell’Unione Europea, con buona pace della nostra capacità di autoapprovvigionamento alimentare. Sono scelte che risulta difficile comprendere, specie se si tiene conto dei profondi riflessi che hanno sotto il profilo economico e sociale del nostro Paese e per le forti ripercussioni che generano per l’intera filiera agro-alimentare italiana, costretta a dover aumentare sempre più l’importazione di materie prime per mantenere la produzione alimentare ad un livello in grado di soddisfare non solo il mercato interno, ma anche la domanda che proviene dai mercati esteri, presso i quali prospera il fenomeno della contraffazione e dell’italian sounding anche in ragione delle difficoltà delle nostre aziende nel riuscire a produrre le quantità necessarie a costi concorrenziali. Anche l’industria mangimistica italiana per produrre i mangimi che servono agli allevamenti nostrani è costretta ad importare dall’estero grandi quantità di materie prime, la cui quota è ormai ben superiore al 50% del proprio fabbisogno.

 

La questione degli OGM diventa pertanto fondamentale, tenuto conto che le materie prime normalmente reperibili sul mercato sono – come già detto – di natura GM e che quelle non GM rappresentano invece una parte ormai largamente minoritaria, con evidenti riflessi economici sul prezzo di mercato delle stesse: prezzo inferiore per quelle dove l’offerta è più abbondante e cioè quelle OGM, e prezzo molto più elevato per quelle, come le non OGM, di cui vi è sempre più penuria. Ed così, ad esempio, che per la farina di soia – che rappresenta la principale ed insostituibile fonte proteica nella razione alimentare degli animali, di cui il nostro Paese importa il 90% del fabbisogno interno – il prezzo di quella certificata non OGM (secondo le ultime quotazioni della Borsa merci di Bologna) presenta un differenziale che oscilla tra il 30% ed il 50% in più, rispetto a quella che deriva dalla soia GM. Un differenziale di prezzo insostenibile per la competitività delle aziende agroalimentari italiane e che va a gravare sulla stessa capacità di acquisto dei consumatori finali, non sempre disposti o in grado di pagare quel differenziale, imposto – tra l’altro – senza che nessuno abbia dimostrato davvero, prove alla mano, quella vantata o presunta, maggiore qualità di ciò che arriva sulle loro tavole.

 

Quella sugli OGM, nella realtà, non è una guerra di religione tra chi è a favore e chi è contrario, anche perché la maggior parte delle persone, ed in primis i consumatori, non sono realmente informati sulla differenza che c’è tra un prodotto biotecnologico e uno i cui geni sono stati modificati con una diversa tecnologia, ma è, semmai una vera e propria battaglia di interessi economici. In gioco non vi è né la salute dei consumatori, né la qualità dei prodotti, né la biodiversità, come si vorrebbe fare credere. Ed infatti la parola sul sì o no agli OGM non viene data, come sarebbe giusto, al verdetto del mondo scientifico, ma viene lasciata preda di quegli operatori o quelle rappresentanze di settori produttivi che, a vario titolo, intendono tutelare i propri interessi, che – pur se legittimi – non hanno certo lo scopo, come vorrebbero fare credere, di tutelare né i consumatori, né gli interessi della collettività.

 

Foto: Pixabay

Giulio Gavino Usai