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Innovazione in agricoltura, quale futuro tra spinte e resistenze

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Questa è la quarta e ultima parte dell’approfondimento sul rapporto tra agricoltura e innovazione del professor Casati. Le precedenti sono state pubblicate sui numeri 5 e 6-anno xi e sul numero 1 anno XII di Mangimi & Alimenti. 

La resistenza all’introduzione dell’innovazione in agricoltura

L’introduzione dell’innovazione trova crescenti ostacoli nel nostro sistema sociale più che in quello produttivo. In un contesto generale in cui i punti fermi della concretezza, della conoscenza, della convivenza civile, della cultura, dei valori perenni della civiltà umana vengono sempre più rimessi in discussione da oscuri processi distruttivi senza un reale contenuto, ma semplicemente per una volontà di annullamento a cui non corrisponde la sostituzione con altri, ma con il semplice nulla, anche l’innovazione viene coinvolta sino al rifiuto immotivato. Un noto aforisma di G.K. Chesterton riferito alla fede in Dio suona così: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto”. Potremmo parafrasarlo dicendo che chi non crede in niente è disposto a credere a tutto. Non si crede alla serietà della ricerca scientifica, alla trasparenza e ripetibilità dei suoi esperimenti, alla validità dei suoi metodi, all’affidabilità delle sue acquisizioni e, di conseguenza, neanche alle innovazioni che essa produce. Ma poi ci si affida alle cosiddette “scienze di confine” che mescolano naturale e soprannaturale, realtà e farneticazioni, in cui si realizza un sorprendente miscuglio fra natura, superstizione, credenze varie, occultismo e via fantasticando. Si accettano pareri di illustri sconosciuti (talvolta troppo bene noti, purtroppo) e per un incredibile concetto di democrazia quantitativa li si mette sullo stesso piano delle affermazioni derivanti dalla corretta prassi scientifica. Lo slogan che viene usato per giustificare questo modo di procedere è “uno vale uno”, che se ha un significato per la dignità del singolo non può essere esteso a specifiche affermazioni che richiederebbero un’altrettanto specifica qualificazione da parte di chi le formula.

Nella confusione creata dalla mancanza di valori fondanti e condivisi va bene tutto e si assiste al fenomeno di un generale “relativismo” già stigmatizzato in altro contesto da Benedetto XVI applicato anche al vivere quotidiano. Non è solo questione di fake news, ma è proprio una forma di negazionismo che si applica alle verità scientifiche.

L’esasperazione della libertà di giudizio viene distorta ed estesa a casi che non possono essere affrontati con semplici opinioni. È così che nell’opinione collettiva viene stroncata a priori l’introduzione dell’innovazione genetica con danni proprio al futuro alimentare dell’umanità e in un impiego produttivo che in qualche decina di anni non ha mai dimostrato ricadute negative sulla salute umana e animale oltre che sull’ambiente. Ma lo stesso non avviene, ad esempio, con l’impiego per le applicazioni in medicina che anzi alimenta aspettative fantascientifiche. E tuttavia vale per l’opposizione a una pratica ormai consolidata da tempo come le vaccinazioni o per la lotta alla xylella, problema recente e destinato a ripetersi con altre specie aliene.

Il culto esasperato della natura diviene una sorta di idolatria, sino a prevalere talvolta sugli esseri umani secondo alcune pretese che vengono diffuse senza nessun possibile contraddittorio. Di fronte ad una situazione di questo genere vi è davvero da chiedersi chi possa avere interesse a investire in ricerca ed innovazione, anche (specialmente) in agricoltura.

Tecniche superate e non verificabili

È nell’ambito di queste posizioni che emergono nel pensiero corrente, acquistando un certo favore, le diverse teorie della produzione che si riferiscono alle tecniche “di una volta”, al “buon tempo antico”. In realtà in queste posizioni è insito il richiamo alla mitica età dell’oro che già era presente nell’antichità in epoca classica e costituiva l’oggetto dell’ironia dei grandi scrittori del tempo. Per giudicare del valore di una tecnica non è sufficiente il fatto che fosse in uso in un tempo remoto per poi essere sostituita da altre evidentemente migliori. Se è stata sostituita e abbandonata è presumibile che presentasse aspetti negativi e che la nuova tecnica subentrata avesse superato tali problemi. Chi si richiama a queste tecniche sembra dimenticare che esse erano comunque soggette a gravi limiti come le fluttuazioni quantitative nel tempo, una sensibilità accentuata alle avversità, problemi di contaminazioni pericolose per la salute umana e così via. La strada del progresso non considera improbabili ritorni ad un passato molto più incerto e malsicuro del presente, ma si muove esattamente in senso opposto. Una nuova tecnologia si afferma solo se migliora quella esistente, come è ovvio.

Ma ancora più ingannevole è il richiamo a tipi di agricoltura che si richiamano a teorie ascientifiche frutto delle elaborazioni di personalità anche autorevoli, ma prive delle conoscenze scientifiche di cui dispone oggi l’umanità. L’accettazione acritica dell’intera dottrina di una di queste forme di agricoltura conduce ad esercitare un’attività produttiva su basi non verificabili che sfuggono a parametri di valutazione e a metodi oggettivi che correntemente vengono applicati alla produzione attualmente in uso, paradossalmente chiamata agricoltura “convenzionale”. Sul piano economico queste forme di agricoltura si confermano inconsistenti perché la loro produttività è ingiustificabilmente minore di quella teoricamente possibile con tecnologie più efficienti. Allo stesso tempo anche economicamente sono meno convenienti perché i costi unitari di produzione sono più elevati e si confrontano sul mercato con quelli medi correnti. Il tutto poi è aggravato dall’immutabilità dei paradigmi produttivi seguiti che non tengono conto della variabilità delle condizioni in cui si svolge l’agricoltura e che determina una sorta di mummificazione del settore agricolo, di museificazione della produzione.

L’agricoltura italiana oggi e il suo futuro

Nell’ambito della rappresentazione fornita dal grande racconto sull’agricoltura italiana che viene offerto dai fautori dell’agricoltura immaginata che dovrebbe produrre di più e meglio di quella che si basa molto più concretamente sulle acquisizioni del progresso scientifico e tecnologico e sull’innovazione, non sono assenti alcuni aspetti che non corrispondono alla realtà e che non reggerebbero ad un esame meno superficiale.

Il primo è il concetto che viene spesso esposto che la nostra agricoltura sarebbe in forte espansione e in grado di fornire una produzione in crescita. Al momento non è così. Negli ultimi 20 anni, ad esempio, il valore della produzione agricola segue una dinamica di crescita moderata a prezzi correnti e a prezzi costanti ma quasi stazionaria (Fig.5). Di conseguenza non possiamo attenderci un contributo consistente e crescente in termini relativi alla formazione del Pil.

Il secondo riguarda appunto il contributo dell’agricoltura alla formazione del Pil. Calcolato a moneta costante appare anch’esso stazionario o in leggero calo (Fig.6). L’incidenza del Valore Aggiunto agricolo sul Pil era del 2,3% all’inizio degli anni 2000 e scende nel 2017 all’1,9%. Anche se l’agricoltura compisse un miglioramento superiore a quello del resto dell’economia, la sua ridotta incidenza sul totale di fatto lo renderebbe poco percepibile.

Il terzo fa riferimento alle possibilità occupazionali del settore agricolo che vengono spesso riferite come molto elevate. Anche in questo caso non è così. L’occupazione agricola, nonostante eventi a carattere episodico spesso enfatizzati, continua a calare nel lungo periodo secondo un trend noto e tipico delle economie sviluppate (Fig.7). Il numero di occupati agricoli  all’inizio della crisi era di 980.000 unità pari al 3,9% del totale dell’occupazione, poi scende nel 2017 sino a 912.000 unità (3,6%). Anche in questo caso variazioni positive che difficilmente si verificherebbero potrebbero avere un impatto modesto sul totale dell’occupazione.

Infine l’ultimo argomento di rilievo è quello della bilancia degli scambi agricolo/alimentari con l’estero.Il quadro degli scambi è in miglioramento, ma occorre considerare separatamente la componente agricola da quella alimentare.  Il saldo, storicamente passivo, si riduce dai circa 10 md di euro del 2008 a 2,9 nel 2018. Il saldo negativo è la somma di -7,5 md per la componente agricola e di +4,7 per l’alimentare.  Dal 2015 l’alimentare passa in attivo e vi rimane (Fig.8 e fig.9). Il merito è dell’export vinicolo attivo nel 2017 per 5,8  md di cui 1,0 di spumanti.

Questi dati introducono un importante spunto di riflessione: la bilancia migliora, ma non perché produciamo più prodotti agricoli, ma perché esportiamo più prodotti alimentari. Si conferma la “vocazione” manifatturiera dell’Italia, Paese bravo a trasformare e esportare anche materie prime importate insieme a quelle interne, come nel caso della pasta di grano duro che in valore è al secondo posto con 2,3 miliardi, ma che in parallelo determina importazioni di grano duro per circa 600 milioni.

Ciò pone una questione di rilievo perché configurerebbe l’Italia come Paese manifatturiero importante in campo alimentare ma con un consistente ricorso all’importazione di materie prime agricole, un fatto in contrasto con l’insistente campagna condotta dall’Italia in tutte le sedi internazionali per la difesa delle denominazioni d’origine di cui presenta il maggior numero fra tutti i Paesi. In contrasto anche con la tesi che l’agricoltura italiana non avrebbe bisogno di innovazione scientifica, ma, anzi, di tornare alle vecchie pratiche perché darebbero prodotti più sani e più nutrienti, affermazioni entrambe non dimostrate.

Al contrario tutta l’agricoltura nazionale beneficerebbe, insieme all’industria alimentare esportatrice, di una decisa politica di sostegno alla produttività del settore e quindi di incentivi alla produzione di innovazione finalizzata al settore ed al suo trasferimento alle imprese. L’interrogativo di fondo a questo proposito è se si riusciranno a superare i vincoli ad ogni tentativo di introduzione di innovazione nel settore, un trasferimento di cui questo ha pressante bisogno, senza ostacoli o resistenze.

Foto: Pixabay

Dario Casati