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L’agricoltura di domani, la sfida della produzione

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Il binomio agricoltura-innovazione si impone come una scelta inderogabile, ben oltre l’ovvia esistenza di un profondo legame, oggi insostituibile ancor più che in passato. Questa consapevolezza supera la semplice constatazione, al limite della banalità, che la storia dell’agricoltura, i suoi 12 millenni circa che riteniamo la definiscano, sia stata realmente una storia di continua immissione di innovazione. Ripercorrere le tappe dell’affascinante cammino di crescita dell’umanità e dell’agricoltura accompagnate, sorrette e stimolate dall’innovazione che quotidianamente, possiamo dirlo con tranquillità, l’ingegno umano ha saputo introdurre nell’attività agricola, è persino superfluo, tanto è evidente. Vorremmo invece sottolineare lo stretto legame esistente fra l’attività agricola e l’economia, un legame che implica una posizione di particolare rilievo anche per l’innovazione ad essa connessa. Vi è una questione, tanto vecchia da sembrare superata, che tuttavia spesso ritorna e ruota attorno al quesito se le leggi dell’economia si applichino o no all’agricoltura. La questione deriva dal fatto che l’agricoltura ha caratteristiche speciali: è l’unica fornitrice di alimenti necessari per la vita umana e la sopravvivenza della specie. Questa condizione ha determinato nel tempo una serie di regole, di norme, di politiche speciali che per questa attività creavano eccezioni motivandole con l’intento di non far mancare il cibo. Fatte salve situazioni estremamente gravi e periodi ridotti nel tempo, prevale però un’ovvia constatazione: come tutte le attività umane, anche l’agricoltura è governata da logiche economiche. Costituisce un settore economico a tutti gli effetti e ciò riconduce al fatto che per crescere e progredire ha bisogno di innovazione.

L’imprenditore agricolo è imprenditore a tutti gli effetti. Come tutti gli altri si contraddistingue per la capacità di innovare che ne è l’elemento distintivo essenziale. Tuttavia la vecchia eccezione ritorna in questa fase della nostra società. Tutto ciò che ormai sembrava scontato non lo è più. Viene rimesso in discussione il ruolo dell’agricoltura, quello dell’economia, quello dell’imprenditore e, contemporaneamente, anche quello dell’innovazione. Paradossalmente, tuttavia, a questo atteggiamento se ne accompagna uno contrastante di interesse alle problematiche e di proposte di interventi di modifica del contesto economico e produttivo attuale. Nel caso dell’agricoltura assistiamo al formarsi di un doppio salto verso una reale diminuzione di importanza. Il primo è dato dal noto andamento del settore all’interno dell’economia in relazione alla maggiore crescita degli altri settori e quindi alla perdita relativa di peso sulla formazione del Pil. Il secondo deriva dalla tendenza ad un’ulteriore contrazione del settore dovuta alla preconcetta riduzione di possibilità di accesso all’innovazione, in particolare a quella collegata al progresso della ricerca scientifica in campo biologico. Il tutto, peraltro, sommerso da un rilevante “rumore di fondo” mediatico tendenzialmente antiscientifico e retrogrado, dall’esaltazione di una retrocessione verso conoscenze e credenze ormai smentite e accantonate, ma presentate come la riscoperta di una verità acquisita attraverso un consenso diffuso nell’opinione pubblica.

Il ruolo fondamentale dell’agricoltura sta cambiando?

Viviamo in un tempo in cui la velocità dei cambiamenti è elevatissima, più di quanto sia mai stata in passato. Se fino a qualche decennio fa il ruolo fondamentale dell’agricoltura sembrava essersi concentrato nella sua esclusiva capacità di produrre alimenti o materie prime per l’alimentazione umana, oggi stiamo probabilmente vivendo, almeno nei paesi ad economia avanzata, una fase di diversificazione orientata verso altre funzioni. L’agricoltura non produce più solo cibo. D’altro canto in un passato remoto, e poi a lungo nel tempo, essa era al centro di quasi tutte le attività umane: produceva prodotti agricoli, ne trasformava alcuni in alimenti (per conservarli nel tempo), produceva anche altre materie prime come legname da riscaldamento e da opera, preparava manufatti, tessuti, abiti, beni strumentali, prodotti energetici. Ma le sue funzioni si sono poi estese dalla produzione di beni sino a coinvolgere anche altre attività. Interveniva anche nella cura del territorio e nel governo delle acque, sulle infrastrutture, sul commercio. In qualche caso ha fornito spunti logici alla formazione di teorie filosofiche e scientifiche e di metodologie di studio. Ancor prima era diventata la base di culti e religioni, entrando profondamente nella costruzione dei miti e concorrendo a formare una base culturale e letteraria amplissima per l’umanità. Il progressivo incremento delle produzioni e quindi il rafforzamento della funzione di produzione del cibo, insieme al parallelo consolidamento delle altre attività connesse all’esercizio dell’agricoltura, ha quindi condotto al distacco di determinate attività ed alla nascita di nuovi settori, come l’industria alimentare, quella tessile, della lavorazione del legno, della creazione di manufatti e attrezzi, delle pelli, dei tessuti e dell’abbigliamento e così via.

Verso la schizofrenia agricola?

Allo stesso tempo cambia anche l’insieme delle richieste che la società avanza al settore agricolo, sino alla situazione attuale in cui alle funzioni già viste si aggiungono la tutela ambientale, la salvaguardia delle risorse naturali, il benessere degli animali. La domanda che ci si pone, di fronte al proliferare e al diversificarsi di attività riguarda proprio la funzione base, quella alimentare, e il suo ruolo da definire nella costruzione di un insieme coerente di obiettivi, di priorità, di gestione del sistema complessivo nei confronti di tutto il resto. Sembra che vi siano due diverse agricolture a confronto.

Vista dall’esterno l’agricoltura assume una duplice immagine che non giova né alla comprensione dei suoi problemi e alla ricerca delle soluzioni possibili né alla formazione nell’opinione pubblica di un atteggiamento univoco nei suoi confronti. L’esempio più recente e di maggiore risonanza di questa connotazione schizofrenica può essere ricavato dalla vicenda dell’EXPO 2015. Il tema generale dell’Esposizione “Nutrire il pianeta, energia per la vita” richiama la prima di queste due immagini. Fu approvato dalla maggioranza di Paesi che sostenne la candidatura di Milano al punto da renderla vincente contro ogni previsione avversa. È l’immagine dell’agricoltura che, nel solco dell’interpretazione del suo ruolo fondamentale, assicura l’alimentazione all’umanità e opera in modo da continuare a farlo in futuro. Un’immagine che presuppone uno svolgimento del tema dell’EXPO in chiave agronomica, scientifica, culturale e divulgativa di tecnologie e di innovazioni. Insomma, un’Esposizione Universale autentica nel solco di quelle del passato a cui si ispirava e che costituivano un potente strumento di conoscenza e di diffusione delle acquisizioni. Importante in termini di comunicazione e di impatto sul grande pubblico indifferenziato e su quello, oggi minore, ma fondamentale, degli operatori agricoli e dei differenti Paesi del mondo con problemi di insufficiente alimentazione. Il risultato atteso era (ed è) un contributo concreto alla grande sfida della lotta alla fame nel mondo, per dirla con la forza ambigua degli slogan, attraverso un colossale sforzo di trasferimento di esperienze e di conoscenze. Questo tema è comunque di forte richiamo, più irrazionale ed emotivo che concretamente operativo, nell’opinione pubblica in generale e nelle coscienze dei singoli individui.

La seconda immagine, abbondantemente presente all’EXPO e diffusa dai mezzi di comunicazione, è quella di un’alimentazione basata sul trionfo dell’eno-gastronomia così diffusa nei Paesi a economia avanzata, basata sulla ricerca di alimenti particolari e “ideologicamente” sostenuti e ricercati e sulle raffinatezze gastronomiche. Un’immagine barocca in senso stretto e cioè costruita sul “meraviglioso”, fatta per stupire. Lasciamo solo intuire, se vi fosse bisogno dirlo, quanto sia lontana dall’altra. In ogni caso, complice anche la natura dell’evento espositivo, ha facilitato uno straordinario successo di questa interpretazione che ha contribuito alle fortune del turismo, della ristorazione, della somministrazione di cibi e bevande e, naturalmente, dei cantori di questo strano mondo dicotomizzato, con la testa nel portafoglio e le idee sulle nuvole. Ma non a quelle dell’agricoltura vera.

Quale sarà il futuro dell’agricoltura?

Tutto ciò ha condotto ad una sorprendente miscela fra quanto annunciato nel tema e quanto letteralmente presentato in tavola. Fra una visione necessariamente produttivistica ed una ideologica basata su obiettivi e strumenti completamente estranei e, soprattutto, inconciliabili. Per la prima, forse lasciata ai popoli che ne hanno bisogno, si sarebbe dovuto parlare di tecniche produttive, di mezzi di produzione, di tecnologie innovative, di strategie di sviluppo. Per la seconda si dà per scontato che il problema della fame sia un fatto “utopico” e cioè senza collocazione fisica nel mondo, a prescindere dalla dimensione globale del problema, e si passa invece alla presentazione dei cibi imbanditi e delle degustazioni, con vaghi accenni agli aspetti produttivi. Per intenderci l’odioso e spesso fasullo “storytelling” delizia del marketing.

A fronte di questo approccio alle problematiche agricole si rimane sconcertati e ci si chiede se l’agricoltura avrà un futuro oppure più di uno e, nel caso di una quasi ovvia risposta positiva, quali possano essere le ipotesi e a partire da quali premesse possano realizzarsi. Incombe sull’umanità lo spettro della fame, destinato ad aggravarsi col trascorrere del tempo oppure ci si avvia verso una prospettiva di alimentazione selezionata, da ogni punto di vista e con particolare riguardo da quello della trionfante gastronomia di alta ricercatezza? Forse entrambe queste ipotesi sono contemporaneamente possibili e vengono rese compatibili dall’ipocrita sottinteso che vi siano popoli meno fortunati, destinati a conquistarsi un livello minimo di alimentazione senza concrete possibilità di miglioramento ed altri che invece sono più fortunati. A questi il cibo non mancherà ed anzi sarà sempre più pregiato, costoso e variato. I più ferventi sostenitori dei due modelli alimentari si esercitano su calcoli costruiti su grandi aggregati e grandi numeri, e sarebbe difficile fare diversamente, ma forse gli uni e gli altri tendono a lasciare in secondo piano una realtà molto diversificata e fattori estremamente variabili sul piano produttivo, della conservazione degli alimenti, della loro distribuzione. Non ultimo del mutato ruolo del settore agricolo nella sensibilità umana e nelle differenti condizioni economiche e sociali e per contrasto del suo fine immanente.

Traguardo mobile

La questione di fondo del problema agricolo, quella a cui non ci si può sottrarre rimane, con buona pace dei gourmet e di consistenti quote di popolazione spensierata dei Paesi ricchi, quella della produzione di alimenti adeguati alle esigenze dell’umanità. È inutile e ingannevole fingere di ignorare che siamo di fronte ad una gara particolare con il tempo e con un traguardo mobile che si sposta sempre in avanti: offrire cibo in quantità crescenti e di qualità migliore agli esseri umani mentre il loro numero è in costante crescita e lo sarà ancora per alcuni decenni. È bene ricordare che anche il concetto di offerta va approfondito, perché significa non solo produrre beni agricoli, ma anche raccoglierli, trasformarli in alimenti, renderli disponibili fisicamente e accessibili economicamente. Posta in questi termini la possibilità di vincere questa sfida sembra veramente incerta, ma a ben guardare è vero il contrario. La crescita della popolazione avviene secondo parametri prevedibili e dipendenti dalle dinamiche demografiche non modificabili facilmente né in tempi brevi, essa prosegue, tendenzialmente, in maniera esponenziale. Un maggior numero di esseri umani richiede quantità crescenti di cibo per il proprio sostentamento e per le migliorate condizioni di vita. Gli esseri umani nutriti meglio vivono più a lungo e possono generare più discendenti e quindi incidere sull’aumento del numero dei consumatori. D’altro canto la diversificazione delle attività lavorative, come sappiamo per esperienza storica, conduce a redditi più elevati. Crescono di conseguenza i consumi procapite, pur con i noti limiti della legge di Engel dei consumi, e sale la domanda di alimenti di maggiore valore che agisce come fattore di stimolo all’incremento dell’offerta. In sintesi, si innesca un ciclo di sviluppo del settore che abbiamo visto nei secoli, in particolare negli ultimi duecento anni e, ancor più, nella seconda metà del Novecento.

Oggi, responsabilmente, ci si pone il quesito sulla possibilità che questo paradigma di crescita riesca a reggere anche in futuro e cioè se la gara anomala di cui parlavamo possa essere vinta. Se in passato l’uomo si fosse posto questo problema nell’ipotesi di una crescita della popolazione e di una domanda come quelle che abbiamo conosciuto, la risposta sarebbe stata certamente negativa: in futuro non vi sarebbe stato cibo per tutti, con conseguenze catastrofiche sull’intera umanità. Chi avesse ragionato così avrebbe commesso lo stesso errore di Malthus che non aveva previsto gli aumenti di produttività frutto dello sviluppo scientifico e tecnologico e che hanno consentito il grande incremento produttivo dell’agricoltura moderna. A nostro avviso commettono un errore analogo gli attuali profeti di sventure che a fronte dell’ipotesi negativa avanzano proposte di soluzione variamente costruite su modelli di decrescita basati sul binomio: produrre meno prodotti agricoli e consumare meno alimenti. Inutile nascondersi l’implicita impossibilità concreta di questo tipo di soluzioni per le scelte che impone, per le modalità di attuazione e per gli elevati rischi che presenta per l’umanità.

 

Foto: Pixabay

 

Dario Casati – Università di Milano