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La leva della produttività per il futuro dell’agricoltura

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Questa è la seconda parte dell’approfondimento sul rapporto tra agricoltura e innovazione del professor Casati, Ordinario di Economia ed estimo rurale della Facoltà di Agraria – Università degli Studi di Milano. La prima è stata pubblicata sul numero precedente di Mangimi & Alimenti.

Il modello agricolo prevalente, pur negli adattamenti introdotti nei diversi contesti produttivi, sociali ed economici, oggi viene rimesso in discussione con una serie di osservazioni e di critiche. A partire dagli anni ‘90 si afferma il criterio della sostenibilità applicato alla produzione agricola. La definizione base è del 1987: “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che è in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere le possibilità delle generazioni future”. Ad essa fanno seguito altre, più articolate e complesse, ma sostanzialmente coerenti con un impianto logico che si fonda su tre fattori interagenti: tutela ambientale, crescita economica e sviluppo sociale. In inglese, ma con riferimento al modo “europeo” di intendere i tre obiettivi della sostenibilità, questi sono definiti come “3Ps: people, prosperity and planet”.

Nella visione che ci guida ci atteniamo ad una definizione contenuta nel Rapporto “Sustainable Agricultural Systems in the 21st Century” predisposto dal Committee on Twenty-First Century Systems Agriculture” del National Research Council e pubblicato nel 2010 dalla National Academy of Sciences degli Usa. La definizione è stata ricavata da quella legale del Food, Conservation, and Trade Act (il Farm Bill del 1990 revisionato nel 2007). Gli obiettivi della sostenibilità possono essere riassunti come segue: “an integrated system of plant and animal production practices having a site-specific application that will, over the long term: satisfy human food and fiber needs; enhance environmental quality and the natural resource base upon which the agricultural economy depends; make the most efficient use of nonrenewable resources and on-farm resources and integrate, where appropriate, natural biological cycles and controls; sustain the economic viability of farm operations; and enhance the quality of life for farmers and society as a whole”.

Riassumendo, gli obiettivi della sostenibilità diventano:

a) Soddisfare i bisogni umani di cibo, alimenti per il bestiame, fibre e contribuire a quelli di biocarburanti

b) Migliorare la qualità dell’ambiente e la dotazione di risorse di cui l’agricoltura si avvale

c) Realizzare un uso efficiente delle risorse non rinnovabili e disponibili, integrare i cicli biologici naturali, dove è opportuno, e i controlli

d) Sostenere la vitalità economica dell’agricoltura

e) Migliorare la qualità della vita degli agricoltori, dei lavoratori agricoli e della Società nel suo insieme.

Nel comune sentire (e sui media) però sembra che prevalga il primo, quasi escludendo gli altri, ma in realtà non è così. Nelle enunciazioni relative alle politiche agrarie, comprese quelle più recenti relative al prossimo periodo della Politica agricola comune 2021/2027, sempre che non venga prorogata l’attuale fase, compare l’obiettivo unificante di realizzare una politica agricola intelligente (smart) e sostenibile articolata su 6 linee guida che mirino a promuovere un settore agricolo intelligente e resiliente, a rafforzare tutela dell’ambiente e azione per il clima contribuendo agli obiettivi climatici e ambientali Ue e a sostenere il reddito agricolo, il ricambio generazionale e il tessuto socioeconomico delle aree rurali.

Almeno nella formulazione generale, dunque, non sembra che il modello agricolo venga messo in discussione, ma già nelle prime proposte di regolamento del giugno 2018 l’interpretazione che ne viene data appare più chiusa verso l’agricoltura convenzionale e più favorevole ad un ampliamento dei vincoli ambientalistici di quanto si pensasse. Sembra, in sostanza, che nel passaggio attraverso le diverse Direzioni Generali dell’Ue sia riemerso un atteggiamento meno produttivista e più ambientalista di quanto fosse indicato nei documenti preliminari.

Le risorse da non consumare: dalla sostenibilità alla produttività

Al contrario, la presentazione del tema della sostenibilità nei termini da noi usati risulta un approccio molto ragionevole alla soluzione dei grandi temi dell’attuale questione agricola a cui fornisce un contributo a nostro avviso particolarmente apprezzabile perché non conflittuale fra le diverse esigenze elencate da soddisfare. La ricomposizione di un quadro collaborativo dell’insieme delle tematiche coinvolte, degli interessi in causa e delle categorie interessate però è solo il punto di partenza e indica la rotta da seguire in una navigazione che rischia di perdere il senso della direzione da seguire a causa dell’emergere di visioni oltranziste. Queste spesso assumono atteggiamenti e comportamenti aggressivi, talvolta violenti e comunque portatori di interessi eccessivamente settoriali e preclusivi delle esigenze delle altre parti.

Le dimensioni del problema di fondo e la fondamentale esigenza di trovare soluzioni che siano nell’interesse dell’intera umanità, senza risultare lesive di quelli di singoli o comunità delle più diverse dimensioni, sono tali da richiedere e sollecitare un approccio di questo genere facendolo preferire ad altri più parziali e divisivi che frequentemente emergono riscuotendo anche un certo seguito.

In sintesi questo problema parte da un’esigenza primaria ineludibile: l’umanità avrà bisogno in futuro di maggiori quantità di prodotti agricoli, per uso alimentare e non, di qualità più differenziata e mediamente migliore. Ciò però deve poter essere ottenuto a condizione di: a) non danneggiare l’ambiente o ridurre le risorse consumabili, ma anzi migliorandoli, b) sostenere l’economia dell’agricoltura, settore produttivo esclusivo di questi beni materiali e immateriali, c) di migliorare la qualità della vita degli agricoltori, dei lavoratori agricoli e della società umana.

La chiave di soluzione di questo problema con molti vincoli consiste in una ricetta economica e tecnologica che è antica quanto ogni attività produttiva e che consiste nella ricerca di una maggiore produttività rispetto a quella conseguita in un certo momento. Mentre con “produzione” intendiamo la quantità di prodotti ottenuti, con il termine “produttività” si indica il rapporto fra produzione ottenuta e fattori produttivi impiegati. A parità di quantità di fattori impiegati, se la produzione che si ottiene con una certa combinazione è superiore ciò significa che la tecnica produttiva impiegata consegue una maggiore produttività. In tutti i settori produttivi e anche in agricoltura il suo miglioramento è il principale fattore di incremento di reddito, cioè di crescita e di sviluppo. La misura della produttività totale e di quella dei fattori produttivi in termini economici è oggetto di studi e di valutazioni da tempo per la complessità dei calcoli da eseguire. Abitualmente si usano diverse modalità ad esempio per la valutazione della produttività di un’impresa o di un insieme di imprese o di un settore o di un intero sistema economico. La produttività totale è data dalla somma delle produttività dei fattori impiegati, schematicamente terra, lavoro, capitale, con i necessari adattamenti al contesto produttivo specifico dell’agricoltura. Inoltre la valutazione è più semplice se si compie su dati fisici (produzione ad ettaro o per capo o per ora di lavoro, ad esempio) oppure su valori economici che implicano l’introduzione di variabili di varia natura e di valutazioni di parametri che rendano possibili i confronti.

Spesso si rimprovera all’agricoltura, ad esempio, di dare un peso eccessivo alla produttività fisica, retaggio di un passato in cui la funzione produttiva più cogente era la produzione di alimenti a livello di piccoli aggregati o territori o all’interno di sistemi economici chiusi. La visione attuale è più ampia e, di necessità, più complessa. Tutto ciò premesso la soluzione dell’incremento della produttività dell’agricoltura si presenta come quella più percorribile per risolvere il problema dell’agricoltura.

Si può puntare sugli incrementi di produttività?

La logica degli incrementi di produttività storicamente è alla base dello sviluppo dell’attività agricola e, senza voler peccare di eccessivo semplicismo, dello sviluppo dell’intera umanità. È così, ad esempio, che è stato possibile nutrire un numero crescente di esseri umani, offrire un’alimentazione migliore, innalzare l’età media, ottenere uno sviluppo fisico e mentale migliori fino ad arrivare alla condizioni di vita complessive sin qui raggiunte. Se questa modalità di crescita è stata in passato considerata positivamente, incoraggiata e sostenuta, altrettanto non avviene oggi poiché essa viene ritenuta da alcuni non coerente con la logica della sostenibilità, in particolare in materia di dispendio e di deterioramento di risorse naturali con danni all’intero ecosistema mondiale.

Nel tempo, in realtà, l’uomo si è sempre posto questo problema, concentrandosi in genere, sulla base delle conoscenze e delle tecnologie in uso, sul problema dei limiti connessi al raggiungimento di un tetto alla produzione. Le critiche attuali si concentrano sulla concreta possibilità di proseguire sulla strada della crescita della produttività anche per il temuto raggiungimento del massimo degli incrementi possibili con le tecnologie in uso. Su ciò si scontrano, da sempre, sostanzialmente due posizioni: quella di chi continua ad avere fiducia nella capacità umana di riuscire a mantenere un’adeguata crescita dell’offerta di cibo grazie agli sviluppi delle conoscenze ed alla loro applicazione e quella di coloro che ritengono si sia raggiunto (o sia imminente in un arco temporale ragionevolmente breve) un tetto invalicabile di produzione e pensano che le pratiche agricole sin qui utilizzate siano ormai nocive e riducano i rendimenti produttivi e che, quindi, la soluzione sia un loro graduale accantonamento accompagnato all’auto-riduzione dei consumi da parte dell’umanità. Il dibattito che oggi anima il mondo agricolo anche sul piano scientifico ruota attorno a questa questione di fondo. In realtà, e sino ad oggi, tutte le previsioni pessimistiche sono state smentite dall’evoluzione delle tecniche conseguente agli effetti dell’innovazione.

L’innovazione e i suoi effetti in agricoltura

L’innovazione è lo strumento che può aprire nuovi e, in precedenza, inattesi sviluppi alle attività produttive. L’agricoltura nei millenni costituisce un esempio molto evidente di come si presenti l’innovazione e venga introdotta nei cicli produttivi. Ma soprattutto dell’enorme potenziale che contiene in sé. Lo studio dei modelli di innovazione, dei meccanismi di applicazione, delle modalità di diffusione e del significato che sempre più acquista sia nei sistemi produttivi sia nella singola impresa si è affinato e ampliato nel Novecento e poi sino ad oggi nel tentativo di utilizzarne i vantaggi. Secondo Schumpeter è proprio la capacità di introdurre innovazione che costituisce la caratteristica più importante della figura dell’imprenditore visto come colui che ha l’intuizione dell’innovazione da introdurre e, intorno ad essa o avvalendosi di essa, riesce a costruire un’impresa economicamente efficiente e in grado di produrre profitto. Secondo una definizione elaborata dall’OCDE nel 1987 in un suo testo noto come “Manuale di Frascati”, l’innovazione comprende tutte le fasi di natura scientifica, tecnica, commerciale e finanziaria necessarie per:

– lo sviluppo e l’introduzione con successo sul mercato di nuovi e migliorati prodotti;

– l’uso commerciale di processi o attrezzature nuove o migliorate;

– l’introduzione di nuovi approcci nei servizi.

Secondo Schumpeter si possono distinguere cinque tipi di innovazione: di prodotto, di processo, di apertura di un nuovo mercato, di acquisizione di nuove materie prime o prodotti intermedi, di organizzazione economica. Le diverse forme sono spesso connesse alle altre. In realtà usualmente, soprattutto per l’innovazione tecnologica che è il caso più frequente in agricoltura, le prime due indicate sono le forme di maggiore frequenza mentre anche la quinta può verificarsi, spesso in connessione con una sola o entrambe le prime due forme. Quando ci si riferisce all’innovazione in agricoltura gli esempi non mancano e sono interessanti anche per le modalità con cui essa si diffonde. Queste in genere sono condivise e l’accesso, con esclusione di casi specifici, è sostanzialmente libero. L’adattamento alle classificazioni nel caso dell’innovazione, in agricoltura come in altri settori, è molto spesso difficile e risulta una forzatura che in fondo non reca con sé particolari vantaggi.

Nel settore agricolo le differenti forme di innovazione sono normalmente ricondotte proprio alla natura tecnica che le accomuna. Anche qui le classificazioni non sono determinanti, ma usualmente si riconducono a quelle di tipo:

a) agronomico, in prevalenza di processo e, in misura minore, organizzative;

b) biologico, di antichissima pratica, sono sia di prodotto sia di processo sia organizzative e formano la storia dell’agricoltura che conosciamo, tanto abituale che non riconosciamo nemmeno più. Fra queste vanno inserite quelle genetiche inclusa la svolta data dalle conoscenze di recente acquisizione in questo campo e che sono oggi vivacemente avversate da un pregiudizio negativo;

c) chimico, essenzialmente di processo e di conseguenza anche organizzative;

d) meccaniche, per l’introduzione di nuovi macchinari nelle operazioni di campo o di trasformazione dei prodotti; sono di processo e soprattutto organizzative (ad esempio per l’impatto sull’impiego del fattore lavoro e sull’organizzazione complessiva delle imprese);

e) zootecniche, intese qui come essenzialmente di processo e di organizzazione per l’allevamento, mentre quelle relative agli animali sono incluse fra quelle biologiche.

In relazione alle controversie sul futuro dell’agricoltura, l’introduzione di innovazione risulta un fattore potenzialmente molto rilevante, per l’impatto più facilmente percepibile con l’innovazione di prodotto che presenta piante e animali con migliori caratteristiche produttive sia in termini di produttività sia di novità varietale sia di resistenza alle avversità e all’evoluzione climatica. Altrettanto lo è per quella di processo che riguarda l’evoluzione di quasi tutte le pratiche agricole, con riduzione del danni al terreno, l’uso più razionale dello stesso, i minori impatti dei macchinari, la razionalizzazione delle operazioni colturali e delle tecnologie di allevamento. In breve con risparmio di terreno e, ad esempio, di acqua a parità di produzione.

L’ultima caratteristica dell’innovazione su cui non ci siamo ancora soffermati è costituita dal fatto che si afferma quando è efficace ed efficiente, dunque miglioratrice di redditività e di produttività. In questo caso è pervasiva e si diffonde attraverso l’informazione diretta e l’evidenza dei risultati. Non attecchisce quando è peggioratrice rispetto all’esistente e quindi risulta esclusa dalle scelte imprenditoriali, contrariamente a quanto spesso sostenuto dai laudatores temporis acti. Al punto che quando i pubblici poteri ritengono che debba comunque essere introdotta per ragioni di interesse della collettività, il legislatore deve prevederne l’obbligo imposto con sanzioni per gli inadempienti.

Il ricorso a nuove tecniche innovative comporta quasi sempre un aumento nei fabbisogni di capitale che, tuttavia, è meno costoso di quello necessario in condizioni ordinarie e non innovative. Questo maggiore impiego di capitale genera conseguenze diverse sull’impiego degli altri fattori: a) risparmio di terra (land saving): innovazioni biologiche, chimiche e alcune agronomiche; b) risparmio di lavoro (labor saving): innovazioni chimiche, meccaniche e zootecniche. Due effetti di grande importanza per il futuro dell’agricoltura e dell’umanità. Nel complesso essi sono difficilmente catalogabili e richiedono variazioni anche negli altri fattori, come un maggiore fabbisogno di capacità imprenditoriale. Per altro verso sono tendenzialmente neutrali nei rapporti di sostituibilità tra fattori e risparmiatrici di lavoro. Il processo di diffusione dell’innovazione in agricoltura segue un iter che, in linea di massima, passa attraverso diverse fasi: a) scoperta; b) sperimentazione, validazione e sviluppo; c) produzione/realizzazione su piccola scala; c) produzione su larga scala; d) sperimentazione a livello territoriale o di gruppi di imprese; d) diffusione delle informazioni agli imprenditori; e) adozione dell’innovazione; f) diffusione per emulazione/imitazione nell’ambiente agricolo. Questo complesso iter esige un intervallo di tempo più o meno lungo in relazione al tipo di innovazione ed alle caratteristiche delle diverse agricolture.

 

Foto: Pixabay

 

Dario Casati