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La tracciabilità del DNA per difendere la qualità degli alimenti e dei mangimi

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La tracciabilità è stata definita dall’International Organization for Standardization (ISO), responsabile dello sviluppo di standard internazionali per il controllo volontario di prodotti e servizi, come la “capacità di seguire il percorso, le metodologie ed i luoghi che hanno contribuito allo sviluppo di quanto è in esame”. Questa definizione è necessariamente ampia, dovendo considerare sia la complessità che sta dietro la produzione di mangimi ed alimenti , sia la diversità degli aspetti che possono essere considerati. È argomento che interessa intere filiere agro-alimentari e gli investimenti relativi. Gli agricoltori ed allevatori possono infatti essere interessati a tracciare le loro produzioni per meglio difenderne la qualità ed il valore merceologico, i trasformatori possono utilizzare la tracciabilità per innalzare il controllo sui prodotti finali, le catene di distribuzione vogliono assicurare trasparenza ai consumatori, che a loro volta richiedono sistemi solidi che assicurino qualità, sicurezza ed autenticità dei prodotti che acquistano. L’etichettatura è, d’altra parte, lo strumento più adatto per comunicare al consumatore le informazioni relative alla composizione ed alla qualità del prodotto. Quest’ultima infatti è una caratteristica plurifattoriale, che nasce dalla combinazione di più parametri e che può essere legata alla composizione in specie e varietà, al metodo di produzione, all’origine geografica.

 

Non è ragionevole immaginare un sistema di tracciabilità totale che copra ogni input ed ogni processo che ha portato alla produzione di un alimento o di un mangime: questo sarebbe enormemente costoso ed irrealizzabile. È invece razionale identificare alcuni bersagli chiave, che possono essere diversi a seconda del prodotto e della filiera. Molteplici possono essere di conseguenza le tecnologie utilizzabili, che vanno dalla tracciabilità documentale, alle caratterizzazioni chimiche, all’utilizzo dell’elettronica. Tra le diverse strategie utili si propone attualmente la tracciabilità genetica che, nata come tecnologia applicata della genetica e della genomica, sta dando un importante contributo. Lo dimostrano i tanti lavori presentati sull’argomento al recente Convegno Internazionale RAFA 2013 (http://www.rafa2013.eu/BoA.html), focalizzato sull’analisi dei prodotti alimentari. L’interesse per sistemi analitici basati sul DNA profiling è giustificato dal fatto che il DNA è una molecola estraibile da innumerevoli matrici alimentari e prodotti finiti, stabile ai diversi trattamenti tecnologici che le materie prime possono subire nelle fasi di lavorazione. Si può interrogare il DNA estratto da una materia prima, un alimento ed un mangime ed ottenere informazioni rilevanti, quali il contenuto in specie vegetali o animali, la presenza di varietà specifiche, l’eventuale presenza di microrganismi dannosi o, al contrario, benefici. Può essere importante tracciare infatti il contenuto in specie vegetali: un esempio è la pasta italiana, che a norma di legge deve essere preparata con semola di grano duro, con una contaminazione massima di grano tenero del 3%. Con l’analisi del DNA si può verificare e quantificare la presenza delle due specie di grano lungo l’intera filiera, dalla semola alla pasta (Terzi et al., 2003).


Si possono caratterizzare mangimi per contenuto in specie per rispondere a disciplinari di produzione specifici: i polimorfismi presenti nei geni che codificano per beta-tubuline possono a questo scopo funzionare come un barcode particolarmente informativo (Braglia et al., 2010). La tracciabilità genetica può aiutare la filiera dei prodotti dell’alveare, quali il miele e la gelatina reale: con protocolli opportuni si può estrarre il DNA presente nel polline residuo e cercare sequenze-spia che consentono di individuare le specie botaniche che sono state visitate in modo prevalente dalle api (Scaramagli et al., 2013). Le tracce del DNA ci possono informare sulle specie animali presenti in un prodotto: l’analisi del DNA viene utilizzata in modo rilevante per la verifica delle specie ittiche in prodotti sfilettati, per l’identificazione dei componenti in preparazioni di carne, per la verifica dell’autenticità del latte utilizzato in prodotti caseari di pregio (esempio classico è la mozzarella di bufala campana, per la cui preparazione è richiesto rigorosamente latte bufalino e non latte vaccino). Indispensabile è diventata la valutazione della presenza di piante geneticamente modificate nei mangimi (PGM): a questo proposito la tracciabilità del loro DNA è il metodo d’elezione. Di rilevanza è infine la possibilità di tracciare varietà vegetali, partendo dalla semente o dal clone ed arrivando al prodotto finito. Basti pensare alla filiera vite-vino, in cui l’identità di un clone è importantissima per il vivaista, per il viticoltore, per la cantina.

 

A questo proposito il progetto VIGNETO ha recentemente fornito tutte le varietà iscritte al registro nazionale di un passaporto molecolare che ne descrive definitivamente l’identità (per info valeria.terzi@entecra.it) La tracciabilità genetica trova importanti applicazioni nella identificazione di microrganismi, eventualmente produttori di micotossine (Morcia et al., 2013), che attaccano le piante agrarie o i prodotti della filiera mangimistica ed alimentare: una diagnostica precoce, in campo, può rafforzare i sistemi di controllo e gestione di tali gravi problematiche.

 

 

Foto: © carballo – Fotolia.com

Valeria Terzi*, Giorgio Tumino, Roberta Ghizzoni, Caterina Morcia – Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura, CRA-GPG, Via San Protaso 302, 29017-Fiorenzuola d’Arda (PC)