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L’antiscienza, un freno alla crescita del Paese

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Nel corso della storia il progresso scientifico si è spesso scontrato con un atteggiamento di ostilità. Questo scetticismo antiscientifico non solo non ha accolto le novità dei laboratori che hanno innovato processi e tecniche, come nel caso degli OGM, ma a volte ha investito anche delle scoperte ormai consolidate nei secoli. Basti pensare ai vaccini e a come, negli ultimi anni, in diversi Paesi, Italia compresa, siano sorti movimenti che hanno messo in discussione l’utilità di un importante strumento di prevenzione e protezione della salute pubblica. Posizioni contrarie alla scienza, che non tengono conto delle evidenze fornite da ricercatori ed esperti, si sono manifestate al cospetto di fenomeni inediti, come per esempio l’epidemia di Xylella fastidiosa tra gli uliveti della Puglia, per la quale sono state fornite anche letture cospirazionistiche. Ancora, l’avversione nei confronti della scienza è affiorata in modalità diversa, con reazioni esagerate di parte dell’opinione pubblica, alla diffusione di notizie su salute e alimentazione, ad esempio l’associazione tra il consumo di carne rossa, fresca e lavorata, e il rischio oncologico.     

Tutto questo ha un costo. Delegittimando il sapere, la conoscenza e il lavoro degli scienziati si frena il progresso. Nel caso dei vaccini i costi sono ancora più evidenti, con un aumento degli oneri sanitari e la diffusione di patologie con tutte le conseguenze del caso. Anche l’intero sistema produttivo, compresi l’agricoltura, la zootecnia – si pensi alle critiche nei confronti degli allevamenti intensivi – e il settore alimentare pagano un prezzo. Lo scorso novembre, a Roma, questi temi sono stati al centro di un incontro organizzato dall’Istituto Bruno Leoni “I costi dell’antiscienza – Convegno sulla mentalità antiscientifica”.  

All’evento hanno partecipato il filosofo della scienza Giulio Giorello, che ha ricordato gli attacchi subiti dalla scienza nel passato, a partire dal celebre caso di Galileo, e il medico e docente dell’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano Roberto Burioni, che si è occupato della questione vaccini. I due interventi più significativi relativi alle tematiche agro-alimentari sono stati quelli del tecnologo alimentare Giorgio Donegani e del ricercatore dell’Istituto di Genetica e Biofisica del Cnr di Napoli Roberto Defez.

Cibi ultraprocessati, una definizione contestata

Donegani ha affrontato il tema dei cibi ultraprocessati, qualcosa che secondo lui esiste come “notizia e non come fatto”. Si tratta di una categoria di alimenti che hanno subito processi di lavorazione e che non sempre godono di buona fama. Sono stati avanzati diversi tentativi di definizione che comunque suscitano diverse perplessità. Secondo una classificazione elaborata in Brasile e citata da Donegani, l’etichetta di cibo ultraprocessato tiene insieme i prodotti da forno industriali con le bevande zuccherate, i piatti preconfezionati con i cereali per la colazione o le marmellate.  

L’esperto si è chiesto se sia ragionevole tenere insieme alimenti anche molto diversi tra loro accomunati solo dal fatto di essere stati lavorati. La ricerca scientifica ha provato a testare la solidità di queste ripartizioni valutando per esempio la correlazione tra il loro consumo e l’obesità “ma i risultati sono stati disparati”. Sostanzialmente sotto il termine ‘ultraprocessati’ finiscono alimenti di vario tipo, indipendentemente dal processo di lavorazione subito, in genere accomunati dalla presenza di grassi, zuccheri, sale e dallo scarso apporto di fibre. Ma anche questo è stato smentito dalla ricerca, ricorda il tecnologo. In Gran Bretagna, su cinquanta alimenti, si è visto che la maggior parte era a basso contenuto di grassi saturi o il 60% anche fonte di fibre.  

La conclusione di Donegani è che additare gli ultraprocessati come alimenti nocivi deriva da un preciso atteggiamento che “semplifica la vita e deresponsabilizza. È comodo pensare che la salute non dipende dalle scelte ma da alimenti ‘cattivi’, velenosi, come la carne e i cibi ultraprocessati”.

Il caso glifosato 

Con l’intervento di Roberto Defez dedicato al glifosato si è passati dalla tavola ai terreni agricoli. L’origine della questione risale al 2015 con la decisione dell’Agenzia per la ricerca sul Cancro dell’Oms di inserire l’erbicida nella categoria dei probabili cancerogeni relativamente all’associazione con il rischio di un solo tipo di tumore, il linfoma non Hodgkin. Un fatto cannibalizzato dai media con una velocità tipica del mondo dell’informazione che non sempre si concilia con i tempi della riflessione scientifica. Defez ha evidenziato poi le imprecisioni delle notizie che hanno affrontato il tema del glifosato e dell’impatto del suo utilizzo in agricoltura sulla salute.  

Il ricercatore, per chiarire meglio i contorni della questione, ha inoltre fatto riferimento alla differenza tra pericolo e rischio: “Lo Iarc si occupa del pericolo, le altre agenzie del rischio, ossia del pericolo moltiplicato per la dose, la frequenza, il peso corporeo, ecc. È la dose che fa il veleno. Non a caso quando è uscito nel novembre 2017 uno studio fatto su 54 mila persone che hanno applicato agrofarmaci, di cui 45 mila avevano usato glifosato, per cercare una correlazione con tutti i tipi tumori, non è emersa nessuna correlazione”. 

E l’esperto ha ricordato, infine, che secondo la Fao le erbe infestanti sono un problema molto rilevante, “da 95 miliardi di danni” e che con la pratica della semina su sodo, per cui è necessario un erbicida, “si è risparmiata nel 2013 l’emissione di 27 miliardi di tonnellate di CO2”. 

Recuperare la fiducia verso il mondo scientifico 

Come suggeriscono questi temi, le questioni che spesso sono affrontate con toni allarmistici sono invece molto complesse. Il racconto di questa complessità chiama in causa sia il mondo dell’informazione che quello della scienza e della ricerca. Quest’ultimo, in particolare, deve recuperare la reputazione che ha perso negli ultimi anni e dovrebbe farlo con un lavoro lungo, articolato, coerente che sappia fornire le risposte necessarie ai cittadini, utenti o consumatori. In questo modo, e anche facendo crescere l’opinione pubblica rendendola più edotta, si può prevenire l’insorgenza di nuove posizioni antiscientifiche e ripristinare la fiducia nel progresso, nell’avanzamento della conoscenza, nell’utilità delle innovazioni indispensabile per la crescita del sistema produttivo.

Foto: Pixabay