Accade con una certa frequenza che a fronte di violazioni di norme in ambito sanitario, in assenza di sanzioni specifiche, gli organi di polizia giudiziaria applichino delle sanzioni desumendole da altre normative.
L’agilità con cui tali organi si muovono nel diritto vigente, alla ricerca di sanzioni che si adattino caso per caso, tradisce una certa disinvoltura riguardo al tema, come se la norma violata fosse di per sé più importante dell’atto sanzionatorio, e lo fanno così pervicacemente che sembra quasi di potersene convincere.
Ogni volta che ci si trova di fronte ad una sanzione, qualcuno rievoca il celeberrimo motto secondo cui “la legge non ammette ignoranza”, dimenticando tuttavia che il principio andrebbe applicato anche alla sanzione. Questa, infatti, è essa stessa fonte di diritto: esistono norme dispositive, che contengono cioè il precetto, e norme sanzionatorie. Le une e le altre sono assoggettate alla medesima gerarchia delle fonti del diritto (vedi “30 Giorni” anno 2008, n. 1, pagg. 26-29). È corretto pertanto asserire che ricoprono pari importanza nel nostro ordinamento.
Perché dunque molti atti normativi, pur prevedendo che la violazione dei precetti che contengono costituisca un illecito, non dispongono anche le sanzioni?
La porzione più copiosa della nostra produzione normativa in ambito di sanità veterinaria e di legislazione sanitaria in generale è di competenza dell’Unione Europea. Se a questo aggiungiamo che, come ricordato più volte, dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona in poi (1° dicembre 2009), il diritto dell’Unione Europea prevale persino sulla nostra Costituzione nella gerarchia delle fonti normative, sembra del tutto illogico che molti provvedimenti europei – regolamenti e direttive – siano carenti nel disporre le sanzioni alle violazioni dei precetti che disciplinano.
In effetti, il concetto di sanzione è legato alla tradizionale dicotomia tra diritto civile e diritto penale. In diritto civile il danno viene risarcito attraverso una congrua riparazione, mentre in diritto penale al delitto corrisponde una pena e questo aspetto è talmente proprio di ciascuna società, da affondare nelle sue radici storiche ed evolversi insieme all’etica ivi diffusa. Per tali ragioni, il diritto penale è sempre stato di competenza esclusiva dei singoli Stati membri dell’Unione europea, tanto che solo in tempi recentissimi si sono aperti alcuni spazi di delega all’Unione in tema di politiche comuni di lotta al crimine organizzato.
Lo stesso articolo 5 del Trattato Istitutivo dell’Unione Europea ricorda come spetti innanzi tutto agli Stati membri di adottare le misure a carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato e dalle norme di produzione europea.
E quindi non si tratta di riconoscere un preciso limite alle istituzioni comunitarie, quanto di ricordare una consolidata concezione delle prerogative sanzionatorie dei singoli Stati membri.
Pertanto, tutte le volte che un regolamento europeo o una direttiva restano orfani di sanzione, la responsabilità non va attribuita alla fonte comunitaria, bensì al legislatore italiano, che dovrebbe preoccuparsi di rendere efficiente l’applicazione del diritto. Ecco che risulta ribadita l’importanza della norma sanzionatoria, senza la quale anche la norma dispositiva perde efficacia. Infatti, nel tentativo di conservare questa efficacia, gli organi di P.G., tutte le volte che rilevano una violazione di legge priva di sanzione, saccheggiano a mani basse il Testo Unico delle Leggi Sanitarie, il Regolamento di Polizia Veterinaria e qualsiasi altra norma da cui poter desumere, per analogia, una sanzione.
Peccato che si tratti di misure completamente illegittime.
La Legge n. 689/1981 di modifica al sistema penale, al capo I, art. 1, comma 2 dice che “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano solo nei casi e nei tempi in esse considerati”. La norma, letta in combinato disposto con il principio della riserva di legge, in base al quale solo le leggi statali in senso formale e gli atti muniti di forza di legge (decreti legge e decreti legislativi) possono introdurre nell’ordinamento sanzioni amministrative, introduce il divieto chiaro ed inderogabile di interpretazione analogica.
A questo punto viene da chiedersi: se è così chiaro questo divieto, come mai si continua a praticare l’applicazione di sanzioni per analogia?
E’ utile chiarire che l’istituto dell’interpretazione analogica, benché vietato in diritto penale ed amministrativo, è assolutamente lecito nel diritto civile, dal quale deriva. Infatti, l’estensione per analogia di una norma è un principio di diritto privato, traslato dal più antico diritto romano, che fa riferimento unicamente ai cosiddetti “contratti atipici”, vale a dire a quelle pattuizioni tra privati che, pur non essendo riconducibili ad un “tipo” di contratto previsto dalla legge (compravendita, locazione, comodato, prestazione d’opera, ecc.), contengono tutti gli elementi di diritto funzionali alla loro liceità. In questi casi – e solo in questi – qualora insorga una controversia, il giudice si serve delle norme che disciplinano i contratti “tipici”, procedendo per analogia: individua il tipo di contratto più simile a quello su cui deve sentenziare e ne estende la disciplina e le sanzioni alla fattispecie “atipica”.
Si può ipotizzare che la dignità che l’istituto difende nel diritto civile possa aver tratto qualcuno in inganno circa la sua liceità in ogni altro ambito del diritto, o circa la legittimità di una sua… “estensione analogica”, ma la citata norma della legge n. 689 del 1981 parla chiaro: la sanzione può essere applicata solo se prevista nella medesima normativa che disciplina i casi in cui tale sanzione va applicata.
E allora, siccome questo principio è stato più volte ribadito anche dalle corti di merito che hanno giudicato innumerevoli ricorsi avverso le sanzioni amministrative, siamo davvero tutti d’accordo: la legge non ammette ignoranza. Nemmeno da parte di chi la legge dovrebbe farla rispettare.
Foto: © Gajus_Fotolia
Daria Scarciglia – Avvocato – Fonte: “Fnovi – 30giorni”