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Mais geneticamente modificato, l’allarme è come fumo negli occhi

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Troppi errori metodologici e un’analisi statistica inaffidabile. Sono queste le caratteristiche dell’ultimo studio che ha sollevato polemiche sulla legittimità dell’uso a scopo alimentare e mangimistico delle piante geneticamente modificate, uno studio condotto all’Università di Caen da Gilles-Eric Séralini – già noto alle cronache per le sue posizioni anti-ogm – e incentrato sugli effetti negativi del consumo del mais NK603, varietà ingegnerizzata per resistere al glifosate (il principio attivo dell’erbicida Roundup) il cui uso in campo e a scopo alimentare e mangimistico è stato approvato da diverse nazioni già nell’ormai lontano 2000.

 

Una ricerca inattendibile

La pubblicazione, durante lo scorso autunno, dei risultati ottenuti da Séralini e colleghi ha rianimato il dibattito sugli ogm. Stando a quanto è possibile leggere sulle pagine della rivista Food and Chemical Toxicology, alimentare i ratti con questo mais geneticamente modificato promuoverebbe lo sviluppo di tumori (fra cui cancri alla mammella, all’ipofisi e al fegato), l’insorgenza di problemi ai reni e l’alterazione dell’equilibrio ormonale. Gli iniziali entusiasmi dei detrattori delle piante geneticamente modificate sono stati, però, presto smorzati dalla comunità scientifica internazionale. Anche l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha riscontrato numerose pecche nel lavoro dei ricercatori francesi: l’impiego di ratti che sviluppano spontaneamente tumori, l’uso di un numero troppo esiguo di animali nello studio, il mancato rispetto dei protocolli internazionali standard per la conduzione degli esperimenti, un’analisi statistica non basata sulle metodologie normalmente utilizzate dai ricercatori e la scarsa precisione nel riportare dati fondamentali per l’attendibilità dei risultati. Secondo gli esperti europei “il recente articolo che menziona l’esistenza di timori circa la potenziale tossicità del mais geneticamente modificato NK603 e di un erbicida contenente glifosato non ha una qualità scientifica tale da essere considerato valido ai fini di una valutazione del rischio. L’Efsa, allo stato attuale, non è in grado di ritenere le conclusioni degli autori scientificamente fondate”.

 

In effetti scendendo nei dettagli della ricerca si scopre che i ricercatori francesi hanno alimentato per due anni 10 ratti con mais NK603, con lo stesso mais trattato con Roundup o somministrando agli animali solo l’erbicida. Come ha spiegato Roberto Defez, ricercatore del Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr) di Napoli, “a detta di tutti gli esperti sentiti sull’argomento fare una statistica su 10 ratti nutriti per 2 anni è come fare un test sull’uomo nutrendolo con la stessa dieta per 40 anni”. Non solo, secondo Defez “lo studio afferma essere l’unico a lungo termine, ovvero oltre i tre mesi, condotto su questo argomento. I ricercatori dimenticano invece che studi sugli effetti a lungo termine sono già stati fatti in passato, e hanno portato a conclusioni opposte a quelle di Séralini e coautori”.

 

I dubbi sulla significatività degli effetti riscontrati non si fermano, però, qui. “Gli effetti peggiori non sono stati riscontrati con alti dosaggi di mais geneticamente modificato o di erbicida, ma con dosaggi bassi. Ossia non si tratta, come è ben noto in tossicologia, di un ‘effetto dose’ – ha sottolineato Defez -. In questo caso, quindi, non è la dose che fa il veleno”. Come ha spiegato Anthony Trewavas, biologo dell’Università di Edimburgo (Regno Unito) “quasi tutti gli effetti tossici peggiorano con l’aumento delle dosi – aspetto, questo, considerato essenziale per dimostrare che un certo agente provoca un certo effetto”. Non solo, secondo il ricercatore britannico “è difficile pensare alla possibilità che un erbicida possa avere gli stessi identici effetti tossici di un tipo di mais i cui geni sono stati modificati per distruggere quello stesso erbicida”.

 

La credibilità di Séralini e colleghi non aumenta nemmeno passando a considerare le caratteristiche degli animali utilizzati nello studio. “I ratti impiegati nei test sviluppano normalmente tumori, anzi vengono utilizzati proprio per questa loro caratteristica – ha spiegato Defez -. In pratica, l’81% di questi ratti sviluppa normalmente un tumore entro i 2 anni. Quindi ciò che si dovrebbe andare a misurare è capire se c’è stata una qualunque variazione dalle statistiche già note e pubblicate da tempo”. Tom Sanders, esperto di nutrizione del King’s college di Londra, ha aggiunto un ulteriore dettaglio a questo aspetto, spiegando che in questi ratti la comparsa dei tumori è più frequente se il mais di cui si nutrono è contaminato da una specie di fungo che causa proprio squilibri ormonali, ma che Séralini e colleghi non hanno precisato se il mais utilizzato in questo studio fosse contaminato o meno dal fungo responsabile degli squilibri.

 

Nessuna novità nel campo

Secondo l’Efsa “i numerosi problemi riscontrati nella progettazione e nella metodologia dello studio, così come descritti nell’articolo, implicano l’impossibilità di trarre conclusioni circa l’insorgenza di tumori nei ratti oggetto dell’esperimento”. Il finale della storia dei ratti uccisi dal mais NK603 sarebbe, quindi, già stato scritto e sarebbe lo stesso della vicenda di cui è stata protagonista anni prima la farfalla Monarca. All’epoca il mais geneticamente modificato è stato accusato di esporre questo insetto al rischio di estinzione, ma anche in quell’occasione gli scienziati smontarono pezzo per pezzo le ricerche che avevano sollevato la questione.

 

Foto: Pixabay

Silvia Soligon