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Nomisma, dalla mangimistica non più solo prodotti ma servizi alla zootecnia

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Nel 2020 la mangimistica italiana ha resistito e superato le asperità della crisi economica dovuta alla pandemia. Ha oltrepassato i 15 milioni di tonnellate di produzione e sfiorato gli 8 miliardi di euro di fatturato. Numeri che attestano condizioni soddisfacenti alla vigilia di una stagione caratterizzata dagli investimenti del Pnrr e della Pac 2023-27 e dalla transizione verso un nuovo modello di sviluppo sotto gli auspici del Green Deal europeo. Una stagione di sfide e opportunità, ma anche di minacce, associate all’approvvigionamento di materie prime, al rallentamento della crescita post-pandemica e agli stessi rischi derivanti dall’applicazione della nuova Pac e della strategia per la sostenibilità. È – in estrema sintesi – il quadro dell’industria dell’alimentazione animale delineato da Nomisma per Assalzoo. Un quadro che, inevitabilmente, non tiene conto delle conseguenze del conflitto in Ucraina ma che, tuttavia, trova nel contesto che si va delineando una conferma delle debolezze e dei timori individuati dall’analisi.

Nuovi trend di consumo e prospettive future

Nonostante le difficoltà, il settore mangimistico italiano è stato tra i pochi in Europa ad aver accresciuto la produzione nel 2020. L’incremento dei volumi è stato del 2,7% rispetto al 2019. Complessivamente il settore ha retto, adattando i ritmi di produzione alle esigenze della domanda. I dati del primo semestre del 2021 sembrano confermare una tendenza alla crescita della produzione (circa +5% a gennaio-giugno 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020). La mangimistica ha tenuto in un quadro di tenuta del sistema agro-alimentare-zootecnico. Dopo lo shock pandemico, i consumi di origine zootecnica sono tornati a consolidarsi, soprattutto uova, pesce, carni avicole.

Anche in Europa la tendenza è simile. Nel periodo 2020-2030 si prevede un calo complessivo del consumo di carni, ma la domanda di carni avicole sarà in crescita, e di freschi lattiero-caseari. Tanto sul mercato italiano quanto su quello europeo, un’altra tendenza attesa è la variazione delle abitudini di consumo con maggiore attenzione alle garanzie in termini di tracciabilità, benessere animale e “free-from”. In questo quadro Nomisma prevede un possibile spazio di crescita per il Made in Italy. L’export italiano è un altro segno della resilienza del settore agroalimentare: 46,1 miliardi di euro nel 2020, +2% sul 2019. Alla luce della flessione del 5% dell’import, la bilancia commerciale, strutturalmente in deficit, registra un inedito surplus di 3,1 miliardi.

Il valore totale generato negli scambi commerciali di prodotti di origine zootecnica sfiora nel 2020 i 90 miliardi, con 43,04 miliardi di valore all’import e 46,12 all’export. Durante la pandemia la presenza dei prodotti italiani di origine zootecnica all’estero si è riconfigurata, con un calo di valore all’export dei principali prodotti tranne i salumi e la riduzione dei volumi per la chiusura dell’Horeca. Tuttavia l’import di carni fresche, pesce e latte è calato più nettamente. Il sistema italiano ha trovato un nuovo equilibrio, ponendo attenzione alla disponibilità domestica di materie prime e prodotti trasformati. I dati del primo semestre 2021 sembrano confermare questo trend, con l’import ancora in flessione e l’export in deciso recupero.

Marginalità e servizi agli allevatori

Per numero di imprese, valore e volumi di produzione la parte più consistente nel settore è quella dei mangimi composti. Sono imprese a maggiore intensità di capitale, nelle quali il costo delle materie prime è maggiore e dove  risultano decisive le economie di scala. Sono imprese condizionate da una minore marginalità strutturale. Tuttavia, possono contare su un asset di rilievo: l’integrazione nella filiera, sia rispetto agli altri segmenti del comparto sia alle altre fasi della catena di valore. I mangimi composti, infatti, possono integrarsi con il segmento delle premiscele, dando vita a filiere di mangimi di qualità in grado di rispondere alle esigenze degli allevamenti e di valorizzare gli investimenti in R&S. Nomisma stima che circa il 45% dei mangimi prodotti in Italia sia impiegato in filiere integrate tra imprese mangimistiche e fase di allevamento e/o trasformazione.

A seguito della progressiva ristrutturazione a cui è andato incontro l’allevamento negli ultimi anni, la relazione tra mangimistica e zootecnia si è fatta ancora più stretta. Molte aziende zootecniche sono cresciute in dimensione, si sono professionalizzate, hanno incrementato la dotazione di tecnologia e posto sempre più riguardo al benessere animale e all’alimentazione. Pertanto ai fornitori di mangimi è stato richiesto non più solo un prodotto ma anche un servizio. La mangimistica si è fatta sempre più “cinghia di trasmissione di best practice e innovazione”, sottolinea l’istituto. L’allevatore, ad esempio, richiede supporto in fase gestionale e di tenuta del bilancio, servizi commerciali fino alla consulenza agronomica. Dal canto loro, le imprese mangimistiche avanzate si sono adeguate rafforzando competenze commerciali ma anche di natura veterinaria, tecnica e gestionale. Tuttavia, rispetto a tale risposta, Nomisma rileva anche dei limiti: la carenza di personale qualificato e il ricambio generazionale.

Approvvigionamento di materie prime

La dipendenza dall’estero per la fornitura di cereali e semi oleosi è ormai strutturale. Tra il 2009 e il 2020 la necessità di mais estero è andata accentuandosi. Il calo di investimenti e produzione (-23%), solo in parte compensato da maggiori rese, ha costretto ad aumentare progressivamente gli acquisti dall’estero. Nonostante l’Italia sia diventato il principale produttore di soia nell’Ue, grazie a un aumento delle superfici coltivate e al raddoppio dei volumi (+114%), l’approvvigionamento domestico copre meno del 20% del fabbisogno. La quantità di mais e soia di origine estera è cresciuta, rispettivamente, del 283% e del 162%. L’esiguità del numero dei Paesi fornitori influisce sulla dinamica dei prezzi, esposti anche a fenomeni speculativi. Gestire questa volatilità rientra nel rischio di impresa: grazie al diverso timing di acquisto e agli strumenti finanziari di copertura del rischio, le imprese riescono ad attenuare gli effetti dei bruschi innalzamenti delle quotazioni delle materie prime, evitando il trasferimento nei prezzi dei mangimi, almeno fin quando il rialzo non diventa costante.

Altri due aspetti critici sono legati alle caratteristiche del prodotto e al suo impiego. Le norme europee sugli OGM comportano un deficit di competitività del sistema produttivo rispetto ad altri Paesi. Inoltre la disponibilità di materie prime agricole per la mangimistica – mais, in particolare – è limitata dal loro uso non food/feed, principalmente negli impianti di biogas. Negli ultimi anni si è cercato di contenere questo fenomeno, ma gli investimenti previsti nell’ambito del Pnrr sembrano indicare una spinta opposta. Per il lungo periodo, Nomisma rileva un’attesa per una crescita delle produzioni e delle superfici investite a mais e soia su scala globale, a fronte di un aumento del consumo, più marcato per la destinazione feed. La Commissione Ue stima una crescita di produzione ma a superfici sostanzialmente invariate. Per i consumi è atteso un aumento per il mais. Queste indicazioni – sottolinea Nomisma – non tengono però conto dell’impatto delle misure attuative del Green Deal. La maggiore domanda mondiale attesa potrebbe infine portare a un rialzo di prezzi, una tendenza già rilevata tra fine 2020 e inizio 2021 a seguito della ripresa post pandemica, al ritorno della Cina, all’aumento di costi di trasporti e al permanere della speculazione.

di Vito Miraglia

Foto: Pixabay