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PAC, dopo l’accordo finale la parola passa agli Stati

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Nel momento in cui la nostra rivista sta andando in stampa si stanno concludendo i lavori per definire l’assetto finale della nuova PAC dalla quale dipenderà in buona misura il destino dell’agricoltura dell’Unione Europea da qui al 2020.

 

Va ricordato infatti che alla fine dello scorso mese di giugno si era raggiunto faticosamente un primo accordo sulle linee principali di intervento della nuova PAC, dal quale erano stati però stralciati alcuni aspetti che riguardavano le prospettive finanziarie 2014-2020: il plafonamento,  la degressività, la convergenza esterna, i tassi di cofinanziamento nello sviluppo rurale e il trasferimento di risorse tra i due pilastri.
Su questi ultimi punti della riforma rimasti “aperti” è stato raggiunto il 24 settembre un nuovo accordo politico dal cosiddetto Trilogo, e cioè Parlamento Europeo, Consiglio e Commissione, che di fatto ha decretato la conclusione di questo lungo iter negoziale per la definizione della nuova Politica Agricola Comune che ci accompagnerà fino al termine di questo decennio.


La chiusura di questo lungo e complesso negoziato prevede: lo slittamento al 2015 dell’entrata in vigore del nuovo sistema dei pagamenti diretti; la ripartizione dei fondi PAC tra i 28 Paesi membri per la quale nessuno Stato riceverà meno del 75% della media comunitaria fino al 2019. Inoltre l’aiuto per ettaro non potrà essere inferiore al 60% della media degli aiuti versati fino al 2019 in una determinata zona amministrativa o agronomica. E ancora, i giovani verranno incentivati con un aiuto aggiuntivo del 25% nei primi cinque anni di attività. 


 
Al di là  dei tecnicismi su cui si articola la nuova PAC, va osservato come, nonostante gli sforzi e il ruolo importantissimo svolto anche dal Parlamento Europeo – che per la prima volta è stato coinvolto nella procedura di codecisione per l’approvazione della PAC –, rimangano sul piatto forti dubbi sui risultati che potranno essere conseguiti, sulle ricadute per gli agricoltori, sulla capacità produttiva dell’agricoltura europea nel suo complesso.
Senza dubbio la nuova Politica Agricola Comune evidenzia alcuni importanti limiti, primo fra tutti quello di avere svilito la PAC a mero strumento di sussistenza, trascurando di considerarne invece il ruolo strategico che essa riveste per l’intera Comunità composta da ben 28 Paesi. Un ruolo fondamentale non soltanto per i profondi risvolti di carattere economico, sociale, ambientale che derivano dall’attività agricola, ma anche perché  da questa attività dipende la capacità di garantire, ora e in futuro, la sicurezza alimentare e cioè la capacità di auto-approvvigionamento alimentare per tutta l’Unione Europea ed in particolare per quei Paesi che, come l’Italia, hanno una produzione insufficiente a soddisfare la propria domanda interna. Da questo punto di vista la nuova PAC ha sicuramente più ombre che luci imponendo una serie di oneri a carico dei produttori agricoli che rischiano di condizionarne l’attività e di minarne la competitività, senza prevedere idonee misure di mercato, capaci di gestire la deriva della globalizzazione e senza pensare alla ricostituzione di scorte strategiche necessarie a fronteggiare eventuali emergenze causate da una domanda sempre più alta e spesso ben superiore all’offerta.


Adesso il testimone si trasferirà ai singoli Stati per le modalità con le quali, nei limiti dell’autonomia di applicazione riconosciuta dall’Unione Europea, ciascun Paese intenderà declinare, sulla base delle rispettive necessità e convenienze, quanto concesso dalla riforma appena approvata.
Per il nostro Paese sarà una sfida da non sottovalutare e da non subordinare a logiche corporativistiche, perché la nuova PAC rappresenterà  una sfida difficile: ai vantaggi e alle opportunità per i nuovi Paesi comunitari dell’Est Europa, che vedranno crescere le risorse a loro disposizione da investire in agricoltura e potranno sfruttarle per elevare ancora di più il loro già alto grado di competitività, si contrappongono gli svantaggi per i “vecchi” Paesi dell’UE come il nostro che saranno, invece, chiamati a fare uno sforzo supplementare per ottimizzare al massimo le minori risorse disponibili, evitando ogni forma di spreco o di inefficienza, e per cercare di concentrarne l’impiego solo a favore di quegli operatori dell’agricoltura che da questa attività  traggono la principale fonte di reddito, evitando di sovvenzionare le attività marginali o quelle che con l’agricoltura hanno poco a che vedere.
 
A questo riguardo è auspicabile che, specie con riguardo alle risorse che ciascuno Stato può utilizzare con maggiore autonomia – come quelle che ricadono nell’ambito del cosiddetto “2° pilastro”  e che vanno a sovvenzionare i Piani di Sviluppo Rurale (PSR) –, esse vengano gestite con una maggiore oculatezza, evitando di favorire il finanziamento di attività non prettamente agricole o solo complementari all’agricoltura, per finanziare in modo adeguato e produttivo quelle mirate davvero a garantire lo sviluppo dell’agricoltura del nostro Paese.
In altre parole è necessario un maggiore impegno a livello centrale e locale, con il sostegno di tutte le organizzazioni che rappresentano l’attività  agricola e di trasformazione, nel favorire l’allocazione delle esigue risorse a disposizione per sostenere in modo diretto l’agricoltura italiana e solo gli operatori che operano in questo settore.
Non vanno ripetuti i gravi sbagli fatti sino ad ora e messi chiaramente in evidenza anche dalla stessa Corte dei Conti dell’Unione Europea che in questi giorni ha diffuso la sua relazione speciale intitolata “Misure per la diversificazione dell’economia rurale: gli stati membri e la commissione hanno conseguito un rapporto costi-benefici ottimale?”, che pone in evidenza in modo estremamente chiaro come i fondi destinati a tali misure per il periodo 2007-2013 “conseguono solo in misura limitata un rapporto costi-benefici ottimale”. La stessa Corte dei Conti ha tra l’altro evidenziato che “spesso nella selezione dei progetti, gli stati membri agivano più in base all’esigenza di spendere i fondi assegnati che non a una valutazione dell’idoneità degli stessi progetti di diversificazione e che in alcuni Stati membri” – e l’Italia è stato uno di quelli coinvolti dall’audit della Corte – “quando erano disponibili stanziamenti sufficienti, sono stati finanziati tutti i progetti ammissibili, indipendentemente dall’esito della valutazione che ne era stata fatta sul piano dell’efficienza e dell’efficacia. In seguito, nel periodo in cui i finanziamenti erano scarsi, talvolta sono stati respinti i progetti migliori”.
La stessa Corte ha anche affermato che “nei loro programmi di sviluppo rurale (PSR), gli Stati membri dovrebbero individuare in modo chiaro come e perché  l’intervento pubblico in favore degli investimenti in attività  non agricole possa contribuire a correggere, ad esempio, le disfunzioni del mercato relative agli ostacoli all’occupazione e alla crescita”. 
In una prospettiva futura appare ormai inevitabile immaginare nell’Unione Europea un’agricoltura sempre meno assistita e via via più orientata al mercato e per tale ragione è necessario, fin d’ora, un maggior senso di responsabilità  e una maggiore attenzione nell’uso di quelle poche risorse che abbiamo a disposizione.

 Foto: Pixabay

Giulio Gavino Usai – Responsabile Settore Economico Assalzoo