Seicento litri. Bisogna tenere a mente questo numero per entrare con occhi, olfatto, palato e persino con il cuore, nel mondo del Parmigiano-Reggiano, nel perimetro perfetto della “via lattea” formata da oltre 380 caseifici concentrati nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena e in parte del mantovano e del bolognese. Qui – e solo qui – si produce quell’eccellenza che invano cercano di imitare nel mondo. Invano, perché è la geografia dei luoghi, dei profumi, di storia, esperienza e controlli il valore aggiunto che consente di esaltare il latte – 600 litri per ogni forma, appunto – e produrre quel miracolo “made in Italy” sul quale spicca il marchio del Consorzio del Parmigiano Reggiano e l’inconfondibile punteggiatura che sembra voler mettere le cose in chiaro quando si parla di formaggio e in particolare di formaggio stagionato.
Il “distretto bianco” – La storia di ogni giornata tra mungitura, confezionamento e stagionatura è una storia scritta all’interno di un unico territorio. Il disciplinare è la “Bibbia” a cui devono attenersi scrupolosamente i produttori. Tutto comincia con l’alimentazione delle mucche: “Il latte è prodotto esclusivamente nel comprensorio – spiega Marco Nocetti, responsabile del Servizio Tecnico del Consorzio Parmigiano Reggiano – ma anche il foraggio per l’alimentazione delle vacche da latte deve provenire, a norma del disciplinare, per il 75% dal comprensorio, mentre l’ultimo rinnovo del disciplinare ha portato dal 35% al 50% quello che deve provenire direttamente dall’azienda. Tuttavia questa è la misura minima – continua Nocetti -, perché la gran parte delle aziende supera l’80% e molte arrivano al 100%”. Una regola che rispetta il principio che “non può esistere un’azienda senza terra” e considera, alla lettera, “adeguata l’azienda che dispone di un rapporto terra/bestiame (SAU) non inferiore a 0,33 ettari per vacca in lattazione in pianura e 0,50 ettari in montagna”.
Un latte più puro – “L’alimentazione del bovino da latte è a base di fieno e mangimi 365 giorni all’anno, con spesso un po’ d’erba d’estate”, spiega Nocetti che introduce ai segreti della produzione del Parmigiano Reggiano: aspetti tecnologici, legati a un parametro molto importante, quello della coagulabilità del latte o microbiologici: qui i nemici sono i clostridi che possono risvegliarsi anche dopo molto tempo dalla nascita del formaggio e fare danni all’interno della preziosa forma. “Contro la presenza delle spore nel latte abbiamo scelto di non usare il lisozima, estratto dal bianco delle uova ed usato in altre produzioni per combattere questo problema. Riteniamo che l’uso del lisozima, un additivo sicuro per il consumatore, ma pur sempre un allergene che potrebbe dare problemi ad alcuni, non si accordi con quello che vogliamo: un formaggio a lunga stagionatura come il nostro – continua l’esperto – richiede una qualità che può essere data solo dalla selezione di latte con cariche molto basse, sotto le 100 spore per litro, cariche infinitesimali che permettano di rinunciare all’uso id ogni additivo”. Una scelta che si riflette a monte sulla selezione dell’alimentazione dei bovini.
“Per questo il nostro disciplinare impone il divieto di insilati che tendono ad essere fortemente contaminati dalle spore, anche se sappiamo che questo impone costi di produzione significativamente più alti”, afferma Nocetti, che spiega come proprio come il Consorzio abbia creato un albo dei mangimisti – ne fanno parte una quarantina di aziende – la cui produzione rientra nei parametri del disciplinare (vietati i sottoprodotti ed i grassi aggiunti) e per questo possono riportare sul cartellino il logo del Consorzio. Ma attenzione, “non è un problema del mangimificio garantire il disciplinare, è compito dell’allevatore controllare che siano rispettate le regole”, ricorda Nocetti che anticipa a Mangimi&Alimenti anche un’altra interessante misura presa dal Consorzio sull’albo che “da quest’anno – spiega – diventa l’albo dei produttori di alimenti per il bestiame, che non comprenderà più solo i mangimi ma anche il foraggio, in modo da identificare per la quota esterna all’allevamento provenienza, trattamenti e altri importanti indicatori”.
Tutto questo patrimonio si conserva e moltiplica una volta che si arriva in caseificio, dove il latte viene lavorato al massimo entro due ore dalla mungitura. Il latte scremato della mungitura serale e il latte del mattino vengono versati nelle caldaie di rame, con l’aggiunta di siero innesto e caglio. Anche in questa fase la parola d’ordine è “tipicità”. “Il siero innesto, composto da lactobacilli, fermenti lattici naturali che servono per acidificare il latte, è ottenuto in caseificio conservando una porzione della produzione del giorno prima – spiega Nocetti – e in questo modo arriva a sviluppare fino a un miliardo di cellule per millilitro”. Un ulteriore trionfo del territorio perché “in queste miscele si conservano la peculiare flora del territorio, declinata in migliaia e migliaia di ceppi diversi”.
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