Quote latte, produttività e fabbisogno nel nostro paese, cosa ci riserva il futuro: a parlarne è Daniele Rama dello SMEA, l’Alta Scuola in Economia Agro-alimentare Università Cattolica del Sacro Cuore di Cremona.
Il latte: l’importanza della dimensione produttiva in Italia
La dimensione produttiva del latte è importante perché tanto più un’azienda è grande, tanto più ha la possibilità di avere una migliore organizzazione e di utilizzare tecnologie più efficienti, con la conseguenza di ridurre sensibilmente i costi. Secondo i nostri calcoli, fatto pari a 100 il costo medio per litro di latte in una stalla con 40-50 vacche, esso sale a 125 per una stalla con 20-30 vacche e addirittura a 230 se scandiamo sotto le dieci vacche, mentre si riduce a 85 per una stalla tra 50 e 100 vacche e scende a meno di 70 per una stalla di oltre 150 vacche.
Il risultato è che in un anno “normale” come poteva essere il 2007 (ossia prima che iniziasse l’attuale periodo di forte instabilità dei prezzi delle materie prime agricole e quindi dei costi di alimentazione del bestiame), in media solo un’azienda su quattro chiudeva il suo bilancio con un utile netto: numero che scende a un’azienda su dieci per le strutture con 10-20 vacche, e che sale a due su tre per quelle con 100-150 vacche.
Bisogna fare attenzione: dire che tre aziende da latte su quattro hanno il bilancio in rosso non significa che siano obbligate a fallire, ma che sopravvivono solo perché l’allevatore sottopaga il suo lavoro e il suo investimento. Infatti l’equilibrio tra costi e ricavi a cui ci si riferisce presuppone che l’imprenditore remuneri il proprio lavoro come se fosse lavoro salariato e il proprio capitale similmente a quanto gli offrirebbe il mercato: insomma, molte aziende piccole e medie sopravvivono solo perché l’allevatore rinuncia a essere adeguatamente remunerato. Questo spiega il perché negli anni molte piccole aziende siano sparite: questo equilibrio precario infatti spesso si rompe al momento della successione, perché i figli non accettano più di essere sottopagati come erano i loro padri.
Il fabbisogno italiano e i vincoli europei
La produzione di latte in Italia corrisponde, come si è già detto, a circa il 60% del fabbisogno. Poiché la produzione di latte, grosso modo, è uguale al totale delle quote disponibili, questo dato è talora utilizzato da chi contesta le quote latte, affermando che esse condannano l’Italia a importare il 40% del proprio fabbisogno. Io non condivido questa impostazione: un’analisi sui pro e contro delle quote sarebbe complessa, e mi limito a dire che a mio parere in passato esse hanno avuto un ruolo utile, ma che oggi la decisione di abbandonarle è saggia e razionale. In ogni caso non sono responsabili del deficit produttivo italiano: basta ricordare che negli anni ’70 e nei primi anni ’80, alla vigilia dell’introduzione delle quote, la dipendenza dall’estero del nostro Paese andava aumentando, dato che il nostro settore produttivo aveva un forte ritardo strutturale rispetto agli altri maggiori produttori di latte nella UE – ritardo che oggi è stato in parte recuperato – e le quote hanno bloccato questo processo.
La questione «quote latte»
Ho già detto che la decisione di uscire dalle quote, presa per la prima volta dall’Unione Europea nel 2003 e poi confermata definitivamente nel 2008, è stata una scelta opportuna: le analisi al riguardo concordano sul fatto che esse ormai costituiscono un elemento che riduce l’efficienza della produzione di latte europea, penalizzando in ultima analisi i produttori. Se è vero che nel breve periodo l’abolizione delle quote porterà a una riduzione di prezzo – che si stima in media del 7-8% – è anche vero che questa riduzione sarà più che compensata dalla riduzione dei costi legati all’acquisto e affitto di quote, dalla redistribuzione della produzione verso aree maggiormente efficienti – il che tra l’altro non dovrebbe penalizzare il nostro Paese – e dalla maggiore facilità ad entrare con le produzioni europee sui mercati internazionali.
Quando nel 2008 l’Unione Europea ha decretato l’uscita dal regime delle quote nel 2015, ha adottato un meccanismo di “atterraggio morbido” che prevedeva per cinque anni l’aumento del totale delle quote disponibili in misura dell’1% all’anno cosicché, allentandosi gradualmente il vincolo rappresentato dalle quote, lo stesso valore costituito dal diritto a produrre andasse gradualmente riducendosi fino ad azzerarsi al momento dell’uscita dal sistema. L’Italia, che aveva il problema di una produzione pari al 106% della quota, ha ottenuto di applicare l’intero aumento sin dall’inizio, il che comporta conseguenze in parte positive, in parte negative. Da un lato il problema del pagamento delle multe a Bruxelles è stato risolto per tre anni, ma nel frattempo la produzione, proprio perché libera da vincoli, è cresciuta notevolmente e oggi, con ancora davanti tre annate di quote, esiste il forte rischio di tornare a pagare multe salate.
Anche la proposta di un eventuale indennizzo, almeno parziale, per i produttori che vedranno azzerarsi il valore delle loro quote mi lascia scettico: se analizziamo il rapporto tra prezzo di acquisto e di affitto annuale delle quote, troviamo che negli anni esso si è mantenuto su valori attorno a 4-5, ossia che l’acquisto di quote aveva senso se ammortizzato in non più di 4-5 anni. In effetti si trattava di un “investimento a rischio”, data la possibilità che un cambiamento nelle politiche di settore andasse a modificarne il valore, il che giustifica un ammortamento così breve. Quindi chi ha comprato quote doveva sapere che non le comprava per sempre, e che l’acquisto era razionale se, per la parte di produzione in più, permetteva di realizzare un margine tra ricavo e costo tale da coprire l’acquisto di quote, appunto, in 4-5 anni. Detto questo, è chiaro che ci sono alcuni dettagli da valutare con attenzione (ad esempio situazioni in cui il valore delle quote è stato utilizzato dalle banche come garanzia per prestiti), ma in generale resta che la decisione di uscire dalle quote è stata presa e poi confermata in tempi tali che consentivano tranquillamente ai titolari di ammortizzare il loro investimento in diritti produttivi.
Prospettive future sulla produzione di latte in Italia
Ho premesso che la redistribuzione della produzione di latte in Europa conseguente all’abolizione delle quote non dovrebbe penalizzare il nostro Paese. Un importante studio condotto da dieci università europee, e per l’Italia dall’Università Cattolica di Piacenza, mostra che in assenza di quote oggi la produzione italiana crescerebbe circa del 5,5%, ossia un po’ più della media dell’Unione Europea. Ci sono paesi in cui la produzione crescerebbe di più, come Olanda o Belgio, ma per la maggior parte essa invece crescerebbe meno, stagnerebbe o addirittura si ridurrebbe, come è il caso della Gran Bretagna e di diversi paesi dell’Europa centro-orientale. Tra l’altro si stima che, mentre in media per l’Europa l’abolizione delle quote si tradurrà in una riduzione del prezzo del latte del 7-8%, nel caso italiano questo calo sarà pari a circa la metà, ossia del 3-4%, a causa del mix produttivo del settore lattiero-caseario italiano, in cui sono poco rappresentati i prodotti come burro e latte in polvere, che sono storicamente quelli più sovvenzionati dalle politiche europee, mentre dominano i formaggi, assai meno sostenuti. Quindi, sia pur restando valido l’imperativo di coniugare efficienza produttiva e controllo dei costi con la valorizzazione della qualità dei prodotti, l’avvenire della produzione di latte in Italia potrebbe essere nel complesso abbastanza rassicurante.