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Raffaelle Borriello (Ismea): “Agroalimentare, export non ancora sfruttato a fondo”

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Dottor Borriello, Ismea rappresenta un osservatorio privilegiato del mondo produttivo alimentare italiano. Quali sono le maggiori debolezze del sistema agroalimentare del Belpaese?

Come prima cosa vorrei sottolineare i buoni risultati del sistema agricolo nel periodo recente, sia sotto il profilo economico – nel 2015 il valore aggiunto è aumentato di quasi il 4%, tendenza che sta proseguendo anche nel corso del 2016 -, sia sotto quello occupazionale, soprattutto nella componente giovanile. Questi dati forniscono una buona sponda per sottolineare come, parlare di sviluppo di alcuni territori del Paese, implichi tenere in debita considerazione il settore agricolo e, di conseguenza, la filiera alimentare. È evidente, tuttavia, che qualità e produzioni agricole e alimentari d’eccellenza possono realmente diventare motore di sviluppo di un territorio solo dove si accompagnino alla capacità di produrre livelli quantitativi adeguati, sia per soddisfare le esigenze della domanda sia per interfacciarsi con equo potere contrattuale rispetto alla controparte. È chiaro che questi aspetti sono necessariamente legati a una struttura produttiva robusta. Purtroppo, quello agroalimentare nazionale si caratterizza per essere un sistema estremamente parcellizzato e basato su modelli organizzativi familiari. Su questo fronte, fino a qualche tempo fa l’unica soluzione di cui si sentiva parlare era puntare all’ampliamento delle dimensioni imprenditoriali. Un’ambizione che però molto spesso è rimasta sulla carta essendo per definizione il nostro un modello fondato su micro e piccole imprese. Pur ritenendo certamente corretto mantenere questo obiettivo strategico di lungo periodo, nell’immediato credo sia più alla portata percorrere con maggiore convinzione la strada dell’integrazione nell’ambito della quale, peraltro, abbiamo in Italia delle esperienze di eccellenza che dovremmo puntare a diffondere. La diffusione dell’ICT potrebbe semplificare molto questo processo. Una struttura produttiva meglio organizzata garantirebbe inoltre più opportunità anche relativamente allo sbocco sui mercati esteri.

E, in maniera corrispettiva, se dovesse identificare i punti di forza su quali focalizzerebbe la sua attenzione?
Sicuramente l’eccellenza che contraddistingue i nostri prodotti e che proviene dal quel mix irriproducibile di qualità della materia prima, elevato know how nella trasformazione e legame con il territorio di origine, un territorio che in Italia il più delle volte ha un alto pregio storico e paesaggistico. In sintesi il connubio cibo e territorio è l’elemento che più di tutti esprime la nostra identità, che ci rappresenta all’estero e su cui continuare a puntare nelle strategie di promozione commerciale all’estero. Del resto i dati ci dicono che l’agroalimentare italiano ha tenuto anche negli anni più duri delle due crisi che si sono ripetute nell’ultimo decennio, dimostrando una resilienza maggiore che negli altri Paesi Europei.

A livello di sostegno produttivo, attraverso erogazione di finanziamenti, quali sono i settori che necessitano maggiore considerazione e in che modalità?
Direi che il settore zootecnico e in particolare quello lattiero caseario ha richiesto, in questi ultimi mesi, un’attenzione maggiore da parte delle Istituzioni, non solo nazionali. È noto a tutti come la rimozione dei contingenti imposti da Bruxelles abbia fatto aumentare la pressione competitiva dei grandi produttori europei, innescando ovunque una caduta dei prezzi alla stalla, con conseguenze drammatiche per gli allevatori italiani.
Per rispondere a questa emergenza, il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, ha messo in atto un piano di sostegno al settore che vale 120 milioni ripartiti in tre anni. Tra le misure avviate, segnalo quelle operative da maggio di quest’anno nel “Fondo Latte” e per quali l’Ismea cura la fase di istruttoria delle domande. Si tratta di interventi orientati alla ripresa economica delle imprese del settore, attraverso operazioni finanziarie finalizzate agli investimenti, al consolidamento delle passività e dei debiti commerciali a cui possono accedere tutti i produttori di latte bovino in regola con i pagamenti dei prelievi sulle eccedenze di produzione lattiera.
C’è poi una questione che accomuna tutti i settori agricoli e che riguarda la senilizzazione degli addetti in campagna e un turnover generazionale ancora troppo lento: basti pensare che i giovani conduttori agricoli sono appena l’8% del totale, a fronte di una quota di circa 40% di over 65enni.

La deflazione che attraversa da qualche anno l’economia italiana è espressione evidente di un rallentamento dei consumi interni: come è la situazione per i prodotti agroalimentari? Si vedono segni di ripresa reale e duratura?

Gli acquisti delle famiglie stentano a ripartire, nonostante i segnali positivi provenienti dal mercato del lavoro e nonostante l’aumento del reddito disponibile delle famiglie che, complice il clima di incertezza che ancora si respira, si è tradotto in una crescita della propensione al risparmio senza imprimere quella spinta ai consumi che ci si aspettava. Anche nel settore alimentare permane una debolezza generale dei consumi, almeno sul fronte del canale domestico, con comparti che accusano pesanti flessioni per effetto del cambiamento degli stili di vita e degli allarmi ripetuti che hanno intaccato la fiducia dei consumatori.


Con l’accrescersi di particolari scelte alimentari (veganesimo e vegetarianesimo) e di specifiche scelte etiche nei confronti degli allevamenti, la carne è diventato un prodotto oggetto di contestazione. Quale la situazione reale a livello di consumi e di trend prospettici delle carni (bovine, suini e avicole)?

Dai dati dell’osservatorio Ismea, risultano in significativa flessione gli acquisti di carni fresche e lavorate, parliamo complessivamente di circa 6 punti percentuali in meno nei valori della spesa sul 2015, che già di suo aveva accusato una flessione simile. Innegabile in questo calo il diffondersi di scelte alimentari del tutto prive o povere di proteine animali che stanno coinvolgendo un numero crescente di persone non solo per motivi etici ma anche per motivi salutistici. È infatti importante sottolineare come, al netto di scelte radicali rispettabili, si stia diffondendo una maggiore consapevolezza verso scelte di consumo più sostenibili, ispirate all’attenzione verso il benessere animale e a motivazioni salutistiche e che convergono verso un utilizzo moderato della carne, in un regime alimentare sufficientemente variato e attento alla qualità di ciò che si porta in tavola.
Vale la pena in quest’ambito soffermarsi un attimo anche sull’impatto che l’allarme lanciato dall’ Oms e il clamore mediatico che ne è conseguito, hanno prodotto sul consumo di carne rossa. Lanciato alla fine del 2015, tale allarme ha dato un importante contribuito al bilancio negativo dei consumi di carne suina e bovina. I dati dei primi 6 mesi del 2016 indicano poi un ulteriore peggioramento di questa dinamica, colpendo anche le carni avicole che fino a questo momento erano state risparmiate dal fenomeno di disaffezione del consumatore. Si tratta di cali importanti che oscillano tra il meno 9 degli acquisti di carne suina al meno 4 per le avicole. Anche nel reparto della salumeria il taglio della spesa è stato significativo (-6%), in uno scenario che non risparmia neanche gli acquisti di latte e derivati (-3,4%), per il dilagante fenomeno delle intolleranze al lattosio e di diete legate ad aspetti diversi (etica, vegan, mode, ecc.), spesso alimentato da un’informazione sovrabbondante.

E per quanto riguarda gli altri prodotti della zootecnia (latte, formaggi, uova e insaccati) qual è la situazione? Rimangono prodotti di punta della capacità di trasformazione italiana o hanno subito forme di rallentamento, eccedenti quelle derivanti dal contesto economico generale?

Il settore lattiero-caseario sconta come abbiamo detto una crisi di portata mondiale, conseguente all’eliminazione delle quote latte. Nonostante ciò, il segmento dei formaggi e latticini italiani – e analogamente quello dei salumi – ha continuato a crescere sui mercati esteri grazie all’appeal del made in Italy, soprattutto in quello a stelle e strisce che ha più che compensato la contrazione conseguente all’embargo russo e alla debole domanda proveniente dai principali paesi emergenti.


Guardando oltre i confini nazionali, quale ruolo riveste l’export per il sistema agroalimentare italiano? E quali sarebbero le azioni principali – a livello di sistema – per promuovere la crescita delle esportazioni?

L’export rappresenta indubbiamente un’importante valvola di sfogo per la produzione nazionale specie in presenza di un consumo che non lascia al momento intravedere grossi stimoli di crescita.
La carta dell’export, per i limiti strutturali delle nostre imprese, per la vocazione domestica del nostro sistema distributivo e l’inadeguatezza delle infrastrutture logistiche non è ancora pienamente sfruttata. A queste problematiche sta facendo fronte il Governo il Piano per la Promozione straordinaria del Made in Italy e l’attrazione degli investimenti in Italia. Tra le azioni messe in campo segnalo l’accordo recentemente firmato con Alibaba dal Governo italiano per promuovere le eccellenze agroalimentari del nostro Paese e tutelarle dai falsi sulla grande piattaforma cinese di E-commerce. Questa azione si aggiunge alle altre intraprese negli scorsi mesi, tra cui la creazione del marchio unico distintivo del made in Italy agroalimentare: “The extraordinary Italian taste”, la formazione di circa 400 export manager da affiancare alle aziende in modalità temporary attraverso appositi voucher, il rafforzamento dei grandi eventi fieristici italiani di rilevanza internazionale e l’accordo con le catene distributive estere.

Salvatore Patriarca