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Regolamentazione Ogm, come si è evoluta in 30 anni. Parte prima: le origini

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Rispetto a 30 anni fa, le norme che disciplinano il settore degli organismi geneticamente modificati (Ogm) non hanno compiuto grandi passi in avanti. Lo sostengono, in un editoriale pubblicato sulla rivista Forbes, il fisico e biologo molecolare Henry I. Miller e l’avvocato John J. Cohrssen, ex consulente legale della Casa Bianca. Secondo i due esperti, le leggi sui prodotti Gm non sarebbero state in grado di aderire alle necessità imposte dalle nuove scoperte in campo biologico.

La prima regolamentazione della materia risale agli anni ’70. In quel periodo, il governo degli Stati Uniti ha emanato norme estremamente dettagliate nell’ambito della ricerca, dello sviluppo e del’introduzione di nuove tecniche d’ingegneria genetica applicate all’agricoltura. L’obiettivo era quello di favorire il controllo dei parassiti e di migliorare la produttività dei raccolti. Tuttavia, durante i successivi quattro decenni le norme in vigore non hanno subito modifiche rilevanti. Pertanto, secondo Miller e Cohrssen, si sono rivelate, con il tempo, prive di valide fondamenta scientifiche ed estremamente costose.

Trent’anni fa, il 26 giugno 1986, l’Ufficio Politiche scientifiche e tecnologiche della Casa Bianca ha pubblicato il “Coordinated framework for the regulation of biotechnology”. Il documento indica le modalità attraverso cui il governo statunitense potrebbe favorire lo sviluppo di tecniche d’ingegneria genetica sicure e innovative, soprattutto in ambito farmaceutico, agricolo e nel campo dell’industria di prodotti chimici. Ha attribuito, in particolare, a tre agenzie governative il compito di occuparsi di altrettanti settori: agricoltura all’Usda (Dipartimento dell’Agricoltura degli Usa); sicurezza alimentare, farmaci e dispositivi medici alla Fda (Food and drug administration); pesticidi e altre sostanze chimiche all’Epa (Agenzia di protezione ambientale).

L’obiettivo era quello di creare una normativa sostenibile dal punto di vista scientifico e basata sull’analisi dei rischi, capace di considerare i pericoli reali (non teorici o immaginari) collegati all’impiego e alla commercializzazione dei nuovi Ogm. Il testo stabiliva, in particolare, di concentrarsi sulle caratteristiche dei prodotti – per esempio, sull’eventuale tossicità di un pesticida o sulla capacità di una pianta di resistere all’erba infestante -, piuttosto che sul particolare processo utilizzato per realizzarli.

Questo approccio è stato ribadito nel 1992 dalla Casa Bianca, che ha puntualizzato che lo scopo della normativa è quello di “valutare il rischio rappresentato dall’introduzione nell’ambiente di un determinato prodotto, non di concentrarsi sul particolare processo o tecnica impiegato per realizzarlo”. L’affermazione riflette l’ampio consenso della comunità scientifica sul fatto che le tecniche più recenti di modificazione genetica rappresentino essenzialmente lo sviluppo o il miglioramento di quelle più vecchie, che erano meno precise e prevedibili. Quest’opinione è stata espressa nel 1987 dalla National academy of sciences e nel 1989 dal Consiglio nazionale delle ricerche degli Stati Uniti.

Tuttavia, Miller e Cohrssen ritengono che le Agenzie di regolamentazione non abbiano seguito quest’indicazione. Ignorando i principi contenuti nel “Coordinated framework”, l’Usda e l’Epa avrebbero finito per adottare una regolamentazione eccessiva, che farebbe un’inappropriata differenziazione dei prodotti realizzati con le moderne tecniche d’ingegneria genetica. Poiché l’approccio basato sul processo produttivo non fa distinzioni tra prodotti a basso o ad alto rischio, la regolamentazione risulta onerosa e basata su criteri arbitrari e irrilevanti per tutti i prodotti.

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Foto: Pixabay

redazione