L’acquacoltura non è stata risparmiata dal ciclone della pandemia. Ma come tutti gli altri segmenti dell’agroalimentare ha davanti a sé un’importante occasione di rilancio. Ne parliamo con Pier Antonio Salvador, presidente dell’Associazione Piscicoltori Italiani.
Le conseguenze della gestione della pandemia sul settore agroalimentare sono state molto rilevanti. In che termini hanno pesato le misure di contenimento sull’acquacoltura?
Le ricadute sul settore dell’acquacoltura sono state diverse e significative. Quello che ha pesato maggiormente è stata la chiusura del canale Horeca, non solo la ristorazione ma anche il servizio mensa negli uffici pubblici e nelle aziende e il catering, che rappresenta uno degli sbocchi principali per molte aziende del nostro comparto. Almeno il 30% delle vendite di pesce d’allevamento finisce nella ristorazione e nei servizi di somministrazione di alimenti. Però l’acquacoltura ha sofferto anche per il rallentamento delle operazioni di export e per la sospensione delle attività di pesca sportiva nei laghetti, soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro (in particolare Lombardia e Piemonte). Un altro profilo critico al quale non è stato dato il giusto risalto è che, a differenza della pesca, l’acquacoltura non può interrompere la propria attività: non c’è il ‘fermo acquacoltura’. Gli allevamenti devono sempre rimanere attivi e, per garantire benessere e salute dei pesci, le aziende d’acquacoltura hanno, di conseguenza, continuato a sopportare i consueti costi di gestione, anche a fronte di un calo delle vendite.
Per la prima volta da diversi anni, nel 2020 è atteso per un calo della produzione a livello globale dell’1,3% circa. Anche l’Italia sarà investita da questa tendenza?
Probabilmente anche l’Italia farà registrare nel 2020 un calo produttivo in linea con il trend globale. Fino a quest’anno l’acquacoltura ha rappresentato un settore in salute, molto dinamico, in grado di intercettare la domanda crescente di pesce. Ed è questo ciò su cui bisognerà fare leva nel lungo periodo: con l’aumento della popolazione, i consumi di prodotti ittici sono destinati ad aumentare e la produzione dovrà essere incentivata. Questa è la sfida principale per il nostro settore: bisogna chiedersi non tanto quanto produrre, ma che tipo di pesce fornire.
I comportamenti di acquisto sono stati condizionati dalla pandemia, con il consolidamento della spesa domestica di preparati di pesce e prodotti in scatola. Quali conseguenze sul lungo periodo potrebbero derivare?
Le vendite nella Grande distribuzione organizzata e nei negozi al dettaglio rappresentano il 25-30% del totale. Tuttavia la GDO ha solo in parte assorbito la domanda di pesce che trovava sbocco nel canale Horeca. Dalle abitudini di acquisto nei mesi del lockdown sono emerse indicazioni significative che hanno confermato le propensioni dei consumatori di cui già si aveva contezza. Ad esempio la preferenza per i preparati di pesce per alcune fasce di consumatori, un elemento che può rappresentare uno stimolo per l’industria di trasformazione ma anche per gli acquacoltori stessi. Tuttavia è necessario uno sforzo congiunto tra noi e la GDO. Faccio l’esempio della trota, la prima specie in termini di produzione (37.000 ton. nel 2019 – Italia primo produttore Ue), per la piscicoltura. Il 70% della trota è trasformato dai produttori. Se da un lato questi sono pronti a offrire prodotti eccezionali e innovativi, dall’altro non sempre gli stessi trovano sbocco nella GDO che, probabilmente, non li ritiene particolarmente remunerativi. Nel medio periodo, infine, il nostro settore – come l’intero comparto produttivo agroalimentare – dovrà fare i conti con una minore disponibilità di reddito di parte dei consumatori.
Come per gli altri segmenti della zootecnia, il Governo è intervenuto con misure economiche anche per l’acquacoltura. Si sono rivelati efficaci? Il Piano nazionale ripresa e resilienza potrà contribuire alla sua ripartenza?
Il ministero delle Politiche agricole e il Governo hanno adottato delle misure efficaci, come i ristori e il sostegno alle aziende dell’acquacoltura sul piano dei costi per la manodopera. I ristori verranno elargiti in base al fatturato ma è necessario ricordare che questo non è l’unico indice della salute di un’azienda, non dice tutto sul ciclo biologico dell’allevamento. Sarebbe stato necessario tener conto anche di altri parametri per un’azione di sostegno più efficiente. Per quanto riguarda il piano nazionale che sarà sostenuto dalle risorse del Recovery Fund, si tratta certamente di uno strumento potenzialmente efficace ma il timore è che non affronti i problemi strutturali del comparto ittico, i gap che limitano le prospettive di crescita dell’acquacoltura italiana. La resilienza non sarà mai completa se non si andrà a incidere sull’enorme aggravio che deriva dalla burocrazia. Se non si alleggerisce questo onere, adottando misure di semplificazione e di incentivazione allo sviluppo, il Recovery Plan sarà un’arma spuntata. Inoltre sarà necessario affrontare il capitolo importazioni. Non possiamo continuare a importare l’80% di prodotto dall’estero: se vogliamo essere competitivi a livello internazionale dobbiamo coprire almeno il 50% del nostro fabbisogno con prodotto di origine italiana.
Su cosa punterà il settore per il rilancio nei prossimi mesi? L’attenzione alla sostenibilità, potrà dare nuovo slancio al settore?
Una lezione che abbiamo appreso dalla diffusione del Covid-19, e dalle sue ricadute sul settore agroalimentare, è che i consumatori sono diventati ancora più attenti nei confronti dell’origine degli alimenti e questo vale a maggior ragione per il pesce. Quindi bisogna insistere sulla massima trasparenza per quanto riguarda la tracciabilità, l’etichettatura, anche per i servizi di ristorazione e tutto il canale Horeca che dovrebbe fare uno sforzo ulteriore in questa direzione. I consumatori sanno che il prodotto italiano è più sicuro di quello proveniente da alcuni Paesi esteri e meriterebbero maggiori e più corrette informazioni anche quando consumano pesce fuori casa. L’adesione ai principi di trasparenza da parte della ristorazione potrebbe anche trasformarsi in una possibilità di promozione del Made in Italy. In materia di sostenibilità, siamo sostenitori della transizione verso un modello produttivo che abbia un’impronta meno invasiva sull’ambiente. Tuttavia dobbiamo ricordare che l’idea originaria della nuova politica ambientale dell’Unione europea, Green Deal e Farm to Fork, è stata definita prima dell’avvento della pandemia. Pertanto quando si parla di sostenibilità bisogna tenere nella giusta considerazione non solo l’ambito ambientale, ma anche quello socio-economico, ovvero la tutela della redditività e competitività delle aziende da un lato e quella dei livelli occupazionali nel settore agroalimentare dall’altro.
Vito Miraglia