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Un agroalimentare di prodotto e non di normative

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I prodotti ottenuti con la nuova, moderna tecnica dell’editing genomico vanno considerati secondo la recente (25/07/18) sentenza della Corte di Giustizia Europea alla stregua dei vecchi organismi geneticamente modificati (OGM) e sono soggetti alle stesse norme che li regolano: la mutagenesi (l’insieme di tecniche new breeding techniques – intragenica o cisgenica – che consentono di modificare il genoma di una specie vivente senza inserire DNA estraneo) viene equiparata alla transgenesi, nella quale invece è prevista l’introduzione di materiale genetico prelevato da altri organismi.

Gli scienziati, anche italiani, che lavorano nel campo dell’editing genomico e della modificazione genetica che si è sviluppato negli ultimi anni (e dove la ricerca pubblica italiana ha dato un contributo determinante alla caratterizzazione di numerosi genomi di piante d’interesse agrario e di rilevanza per la nostra agricoltura) hanno accolto con perplessità la sentenza, che conferma un freno alla ricerca, non solo in ambito agricolo quanto anche nel settore medico.

È importante considerare che per le coltivazioni tipiche dell’agricoltura italiana, come ad esempio vite, olivo, agrumi, il normale incrocio distruggerebbe l’identità legale della varietà, un problema che il genome editing può evitare: si potrebbe, ad esempio, ridurre l’uso di pesticidi in viticoltura introducendo per via genetica nei vitigni coltivati la resistenza a funghi parassiti, una caratteristica presente solo in alcune viti selvatiche, senza alterare alcuna altra caratteristica che rende tipica o unica una varietà coltivata: un esempio di come l’innovazione possa proteggere la tradizione.

Un’agricoltura carente sotto il profilo delle innovazioni non potrà far fronte alle sfide poste dal cambiamento climatico e rispondere alle attese dei consumatori, che sollecitano il settore agricolo ad essere più sostenibile.

La questione, agli occhi dei ricercatori, ruota tutta intorno al fatto che i nuovi organismi prodotti con il genome editing (più precisi e quindi più prevedibili nei risultati) siano regolati come se fossero stati ottenuti con i metodi classici Gm o transgenici sviluppati negli ormai lontani anni ’80. Questa scelta rappresenta di fatto il volere chiudere la porta di fronte a una tecnologia rivoluzionaria, rifiutando l’idea di innovazione e di progresso attraverso il mantenimento di un quadro normativo ormai oggettivamente datato.

Il mondo scientifico che si è più volte espresso anche a favore degli OGM, ad esempio i risultati evidenziati dal team di ricerca della Professoressa Laura Ercoli della Scuola Superiore Sant’Anna, pubblicati da Nature, ha anche ribadito come le mutazioni genetiche siano, da un lato, alla base dell’evoluzione e, dall’altro, come la cisgenesi sia ben diversa dalle tecniche che intervengono sulla modifica del genoma con elementi estranei alla specie.

Questo anche a seguito di un parere scientifico fornito alla Commissione Europea nel 2012 dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), nel quale si conclude che i rischi presentati dalle piante ottenute tramite cisgenesi sono simili a quelli delle piante ottenute tramite miglioramento genetico tradizionale. Ma anche lo Swedish Board of Agriculture (autorità governativa svedese per politica agroalimentare responsabile per il settore agricolo ed orticolo) e il Bundesamt für Verbraucherschutz und Lebensmittelsicherheit (BVL, l’Agenzia Federale Tedesca per la Protezione dei Consumatori e la Sicurezza Alimentare), richieste di fornire un’opinione rispetto alle regole da utilizzare per la coltivazione di piante ottenute tramite la tecnica definita come SDN-1, hanno concluso che prodotti di genome editing che non contengano DNA esogeno dovrebbero essere trattati come prodotti non GM e quindi essere esentati dalla Direttiva 2001/18/EC. Ma a nulla pare valere il parere della Scienza.

Senza voler entrare in questioni scientifiche, circa le differenze tra le due metodiche, rimane forte la sensazione che il mondo agricolo ed agroalimentare nel suo complesso, sia europeo che soprattutto italiano, siano stati messi in una condizione di grande difficoltà operativa quale conseguenza di una inopinata sovrapposizione di piani tra la normativa e la ricerca. Ed è da una prospettiva politica, scientifica, imprenditoriale e industriale che il tema va affrontato.

Dal punto di giuridico la decisone della Corte di giustizia europea ha una sua logica tenuto conto che si fonda su una normativa che disciplina le bioteconlogie sulla base della tecnica impiegata disinteressandosi del prodotto. Ed qui che sta l’assurdo perché la valutazione non dovrebbe essere incentrata sulla tecnica che si utilizza ma sul prodotto che da essa deriva e dalla verifica che esso mantenga tutte quelle caratteristiche idonee ad assicurare la sua sicurezza, la sua produzione sostenibile e la sua disponibilità per una domanda crescente in termini di quantità e qualità.

Questo cambiamento prospettico è un passaggio necessario se si vuole evitare che l’Europa resti un fanalino di coda nella competizione agroalimentare mondiale. Rinunciando all’innovazione e allo sviluppo tecnico-scientifico, si annulla ogni reale possibilità di incremento delle proprie produzioni e di miglioramento sui temi della sostenibilità, della sicurezza e della qualità delle produzioni agroalimentari, ma si pongono le basi anche per la creazione di barriere non tariffarie che metteranno in serio pericolo anche la capacità di approvvigionamento dall’estero.

Bloccare tale meccanismo virtuoso, vincolando le novità tecnico-scientifiche a norme pensate quasi 40 anni fa rappresenta un elemento preoccupante rispetto all’intero processo di sviluppo della nostra agroindustria. Tuttavia, la severità delle normative per coltivazioni OGM impone costi economici che di fatto favoriscono le grandi multinazionali a discapito delle piccole imprese e della ricerca pubblica.

L’agricoltura italiana ha urgente bisogno di migliorare la qualità e la quantità delle produzioni. Va immaginata un’alleanza per l’innovazione che sappia mettere insieme ricerca, istituzioni e imprenditoria privata, perché solo in un contesto di reale cooperazione si può favorire uno sviluppo in chiave moderna di un’attività agricola e agroindustriale sostenibile a beneficio dell’ambiente, dell’economia e, non ultimi, dei consumatori finali.

È un’esigenza di tutti gli attori della filiera, che dovrebbe essere tenuta in considerazione in ambito politico. I tempi appaiono maturi per passare ad una normativa che moduli il livello di controllo in base alle specifiche tecnologie usate e alla novità genetica introdotta e che quindi giudichi una varietà vegetale non solo in base alla tecnologia utilizzata per produrla ma soprattutto in base alle caratteristiche della varietà ottenuta.

In tale prospettiva è forse giusto rivedere la Direttiva 2001/18/EC, predisponendo normative specifiche basate sull’eventuale pericolosità o meno dei prodotti, cioè la combinazione dei geni utilizzati con la specie che li riceve.

Solamente con un’agricoltura sostenibile, moderna, efficiente, innovativa, scientificamente all’avanguardia, industrializzata è possibile garantire la specificità delle produzioni italiane e la loro capacità di penetrazione sui mercati internazionali.

Foto: Pixabay

Marcello Veronesi