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Zootecnia, tra alimentazione di precisione e tecnologia verso zero emissioni in dieci anni

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L’impronta ambientale della zootecnia è andata riducendosi negli anni e nel lungo periodo potrebbe arrivare a zero emissioni. È un obiettivo che si può prospettare se la gestione degli allevamenti continuerà a guadagnare in termini di efficienza. Il contributo dell’alimentazione animale, della tecnologia e della ricerca sarà fondamentale. Di sostenibilità e allevamenti ha parlato l’Accademia dei Georgofili in un documento presentato in occasione dell’audizione alla commissione Agricoltura del Senato lo scorso 2 febbraio. Degli accademici firmatari è intervenuto in commissione il professor Bruno Ronchi, coordinatore del Comitato Consultivo per l’accademia per gli allevamenti e la produzione animali.

Carbon e water footprint 

La zootecnia è riconosciuta come un comparto strategico per l’Italia: i suoi prodotti sono una bandiera del Made in Italy, la sua attività presidia il 40% del territorio rurale nazionale e da essa deriva circa metà del valore aggiunto dell’agroalimentare nazionale. L’impatto ambientale, calcolato in termini di emissioni di gas climalteranti e sostanze nocive e di consumo di acqua, si è andato via via riducendosi. Oggi le emissioni di gas a effetto serra rappresentano il 5,2% del totale. Dal 1990 – sottolineano gli accademici – si sono ridotte del 12%. Dal 1970 la quantità di metano immessa nell’atmosfera e derivante dagli allevamenti è scesa del 40% mentre Ispra ha indicato un calo di emissioni di ammoniaca del 23,4% tra 1990 e 2018.

Il consumo di acqua da parte delle unità produttive zootecniche è paragonabile a quello di altre produzioni, a differenza di quanto diffusamente si sostiene. Bisogna infatti considerare l’utilizzo di acqua di riciclo e piovana raccolta: in questo modo l’impronta idrica si aggira tra 100 e 300 litri di acqua per produrre un litro di latte e 500-1000 litri per un kg di carne bovina. Dati più corretti rispetto a quelli spesso indicati di circa 1000 litri di acqua per un litro di latte e 15 mila per un kg di carne bovina. Questi valori sono infatti costituiti per più del 90% da acqua piovana. Volendo considerare comunque l’acqua piovana – sottolineano gli esperti – questa dovrebbe essere valutata come la differenza tra l’evapotraspirazione delle superfici su cui si coltivano foraggi e cereali utilizzati dalla zootecnia e quella delle superfici naturali indisturbate, con il metodo della nWFP, net Water Footprint (si sottrae all’acqua totale consumata quella evapotraspirata dalla vegetazione spontanea che sarebbe cresciuta se non si fosse coltivato nulla). Così le superfici investite a pascolo naturalmente inerbito possono addirittura dare, negli ambienti mediterranei, una nWFP negativa.

Economia circolare: meno sprechi e meno alimenti edibili per l’uomo

Diversi elementi hanno concorso, negli anni, a rendere la zootecnia sempre più sostenibile. I programmi di selezione genetica hanno dimostrato crescente attenzione per l’efficienza alimentare ed è migliorata la gestione degli allevamenti con l’obiettivo di ridurre l’incidenza delle malattie e quindi l’uso di antibiotici, tutelando così il benessere animale. Una posizione di primo piano la occupa l’alimentazione animale. Grazie all’incremento delle conoscenze scientifiche si sono definiti con maggiore accuratezza i fabbisogni nutrizionali degli animali con l’effetto positivo di ridurre le escrezioni di azoto. L’alimentazione, inoltre, è diventata ‘di precisione’. Con razionamenti su misura si sono ridotti gli sprechi e, inoltre, l’industria mangimistica ha creato prodotti sempre più digeribili. Animali più efficienti consumano infatti meno sostanza secca per mantenere un certo livello produttivo. Più sono efficienti nel trasformare quanto mangiano minore sarà l’inquinamento.

Il modello di economia circolare ampiamente adottato dal comparto ha poi permesso di ridurre sia l’impatto ambientale che l’impiego di alimenti destinati al consumo umano. A livello globale – si legge nel documento dell’accademia – l’86% degli alimenti consumati dagli animali è rappresentato da foraggi, sottoprodotti e co-prodotti dell’industria alimentare, tutti non edibili per l’uomo. “L’industria mangimistica svolge un ruolo determinante nella valorizzazione e il reimpiego di co-prodotti ottenuti da altre filiere agroindustriali”, scrivono gli esperti che citano il caso del siero di latte per la suinicoltura. Questo co-prodotto permette di risparmiare circa 1 kg fra cereali e alimenti proteici e 14 litri di acqua utilizzandone 15 litri a capo al giorno. 

Alla luce delle conquiste degli ultimi anni è dunque sempre più evidente il valore della ricerca scientifica e del trasferimento delle innovazioni sul campo: “È ineludibile la creazione di un’area scientifica di “Sostenibilità delle produzioni e dei prodotti animali” in cui allocare i finanziamenti per progetti strategici nazionali che eviti al settore di soccombere nella competizione con quello biomedico e farmaceutico attualmente collocato nella stessa area delle Scienze della vita”, è la proposta degli accademici. 

Per gli esperti, infine, l’inserimento del bilancio di filiera del carbonio tra le premialità del Piano nazionale di Sviluppo rurale è un obiettivo primario del prossimo ciclo di programmazione Pac per l’Italia.

Foto: Pixabay