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Umberto Luzzana: “Acquacoltura italiana, garanzia di sicurezza alimentare”

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Con una produzione di 220 mila tonnellate di pesci e molluschi, l’acquacoltura italiana contribuisce al 49% del rendimento del comparto ittico nazionale. È un settore fortemente attento alla qualità e alla sicurezza degli alimenti, in prima linea nella garanzia di prodotti sani e sicuri. Eppure, in Italia è ancora diffusa la convinzione che il pesce pescato sarebbe più “naturale e genuino” di quello di allevamento. In realtà, del primo non si conosce l’area di cattura, né si hanno informazioni dettagliate sulle acque di provenienza. Al contrario, quello allevato viene sottoposto a numerosi controlli e viene cresciuto all’interno di ambienti che devono rispettare i criteri fissati dal legislatore. Di conseguenza, l’acquacoltura italiana è garanzia di sicurezza alimentare. Lo spiega il dottor Umberto Luzzana, esperto di Nutrizione in acquacoltura di Skretting Italia.

Le linee guida alimentari consigliano un consumo regolare di proteine nobili e, in particolare, di pesce. Qual è la situazione dell’acquacoltura in Italia e la capacità di rispondere alla richiesta di questi prodotti?
L’acquacoltura italiana contribuisce a circa il 49% della produzione ittica nazionale con una quantità di 220.000 tonnellate (t) di prodotto. Si allevano principalmente molluschi (116.000 t di mitili e 42.000 t di vongole), trote (38.000 t), spigole/branzini e orate (rispettivamente 7.400 e 9.000 t), ombrine (200 t), anguille (1.100 t), storioni (1.900 t), carpe e altri ciprinidi (700 t), pesci gatto (600 t) e altre specie (sarago, tonno, cefalo, luccio salmerino, per un totale di 5.000 t). (Api, 2013, in Alimenti di origine animale e salute, a cura di Mele e Pulina, FrancoAngeli 2016). Va però anche detto che il tasso di auto-approvvigionamento del settore ittico è il più basso nel comparto delle produzioni animali, attestandosi attorno al 38% nel 2010 (Ismea, 2010, in Alimenti di origine animale e salute, a cura di Mele e Pulina, FrancoAngeli 2016).

Spesso c’è confusione sulla natura degli insediamenti di acquacoltura. Proviamo a fare un po’ di chiarezza: in cosa si differenziano gli allevamenti in acque marine da quelli in acque dolci?
Gli allevamenti di pesci di mare possono essere in vasche a terra oppure in gabbie galleggianti a mare, mentre quelli di acqua dolce direi che sono esclusivamente in vasche. Le due tecnologie di allevamento (in vasca o in gabbia) sono molto diverse tra loro. Nel caso delle vasche, infatti, il controllo dell’impianto è facilitato dalla maggiore accessibilità, mentre i problemi maggiori riguardano l’approvvigionamento idrico, che dev’essere di qualità e quantità adeguata, e che sovente comporta costi energetici rilevanti legati alla necessità di pompare l’acqua. Le gabbie galleggianti non presentano queste problematiche, ma possono presentare difficoltà gestionali legate alle variabili condizioni meteo-marine e richiedono attrezzature di supporto, come barche per l’alimentazione e per la pesca. Com’è ovvio, poi, le specie allevate in acqua dolce sono diverse da quelle allevate in mare, e quindi diverse sono le esigenze ambientali e i fabbisogni nutrizionali. Ne conseguono, quindi, importanti differenze nelle pratiche gestionali, nei valori ottimali dei parametri ambientali e nella tipologia di alimenti utilizzati.

Vale anche per l’acquacoltura la differenziazione tra allevamenti intensivi ed estensivi? Quali sono le differenza principali?
Esistono diverse classificazioni del livello di intensivizzazione delle attività di acquacoltura. Personalmente, quella che mi sembra più chiara è quella che si basa sull’accesso o meno alla catena trofica naturale. In questo senso, viene definito “intensivo” un allevamento ittico in cui gli animali hanno accesso pressoché unicamente ad alimenti composti integrati distribuiti dall’allevatore. Ė il caso più tipico degli allevamenti diffusi nel nostro Paese, come le troticolture o gli allevamenti di spigole/branzini e orate, siano essi in gabbie a mare o in vasche a terra. Viceversa, si parla di allevamento “estensivo” quando i pesci hanno accesso alla catena trofica naturale, che contribuisce in maniera significativa al soddisfacimento dei loro fabbisogni nutrizionali: in questo caso il mangime composto integrato costituisce solo una quota parte dell’alimento consumato dai pesci allevati. Si tratta, ad esempio, della vallicoltura veneta di antica tradizione, che sfrutta i movimenti naturali del pesce che risale in laguna in primavera (la “montata”) e ritorna in mare ai primi freddi (“smontata”). Un altro esempio, questa volta relativo a specie d’acqua dolce, è la carpicoltura che viene praticata in Europa Centrale, in vasti bacini d’acqua spesso in policoltura con altre specie. In entrambi questi esempi, il mangime composto integrato, se pure viene usato, rappresenta solo una parte dell’alimento, minoritaria in genere rispetto al contributo della catena trofica naturale.

Da un punto di vista nutrizionale, come vengono alimentati i pesci di acquacoltura? Ci sono delle specifiche attenzioni negli apporti di nutrienti?
Le specie ittiche maggiormente allevate in Italia, che come abbiamo visto sono trota spigola/branzino e orata, sono carnivore, e quindi hanno fabbisogni piuttosto elevati di proteine ed energia, anche se va detto che i pesci sono molti efficienti nell’utilizzare questi nutrienti rispetto ad altre specie. Le efficienze di conversione delle proteine e dell’energia nei pesci, infatti, sono superiori al 30%, contro valori che per gli animali terrestri variano per le proteine dal 20% dei broiler fino al 6% del manzo, e per l’energia dal 10% del broiler al 4.5% del manzo. Detto questo, i mangimi per pesci hanno generalmente un livello di proteine piuttosto elevato (tra il 40 e il 50%) e così pure di grassi (tra il 10 e il 30%). Le materie prime utilizzate comprendono ingredienti di origine marina (farine e oli di pesce), animale terrestre (di origine avicola o suina) e vegetale (farine proteiche e oli). Un aspetto peculiare dell’alimentazione delle specie ittiche carnivore, stanti i citati elevati fabbisogni in proteine ed energia, riguarda il rapporto tra risorse marine utilizzate nei mangimi (farine e oli derivanti da pesci pelagici oggetto di pesca industriale) e pesce allevato prodotto. È il cosiddetto rapporto Fifo (Fish in–Fish out), cioè i kg di pesce selvatico necessari per produrre 1 kg di pesce allevato. L’obiettivo è quello di portare questo indice a un valore inferiore a 1, rendendo quindi l’acquacoltura produttrice netta di pesce. Curiosamente, nel porsi questo obiettivo si trascura di mettere in luce come in realtà l’acquacoltura rappresenti un sistema produttivo molto efficiente, addirittura migliorativo rispetto alla catena trofica naturale. Per esempio, al salmone atlantico viene attribuito un valore del rapporto Fifo attorno a 2, il che significa che occorrono 2 kg di pesce pelagico, come le aringhe, per produrre 1 kg di salmone allevato. In natura, il salmone si trova a un livello della catena alimentare più in alto dell’aringa (4.4 contro 3.4), e dal momento che l’efficienza di conversione tra livelli trofici in natura è del 10% ne consegue che per 1 kg di salmone selvatico sono necessari 10 kg di aringhe! La ricerca accademica e industriale ha, comunque, fatto importanti passi avanti negli ultimi anni, permettendo una sempre maggiore indipendenza da materie prime un tempo ritenute insostituibili, e oggi valori del rapporto Fifo inferiori a 1 sono già la realtà anche per alcune specie carnivore allevate, come ad esempio la trota. Anche le materie prime che possono essere utilizzate per sostituire le farine e gli oli di pesce, come i derivati della soia e della palma, possono però presentare problematiche legate alla sostenibilità quando coltivate su terreni risultanti da deforestazione, o quando impiegano pratiche agronomiche impattanti. Tant’è vero che sono nate iniziative come la Round table for responsible soy (Rtrs) o la Round table for sustainable palm oil (Rspo), che coinvolgono i diversi attori delle rispettive filiere e che sono volte a promuovere una gestione responsabile di tali problematiche e a certificarla. Ridurre l’inclusione di materie prime di origine marina significa, poi, anche incidere sul livello di ω3 contenuti nel filetto del pesce allevato, dal momento che questi acidi grassi, che sono forse l’elemento più peculiare che caratterizza il valore nutrizionale del pesce, possono arrivare solo dalla catena alimentare marina. La ricerca di un equilibrio tra questi diversi obiettivi è quindi fondamentale, per salvaguardare da un lato la biodiversità, mantenendo dall’altro livelli adeguati dei nutrienti essenziali che rendono il pesce un alimento unico. Le alghe appaiono in questo momento una promettente fonte “rinnovabile” di acidi grassi ω3 per la mangimistica, che potrebbe aiutare a mantenere questo equilibrio, insieme alla valorizzazione dei sottoprodotti dell’industria alimentare (già oggi il 30% del totale di farina di pesce disponibile sul mercato globale deriva in effetti da sottoprodotti della lavorazione di pesce destinato a consumo umano) e alla messa a punto di tecnologie come il concetto nutrizionale Skretting MicroBalanceTM, che attraverso un accurato bilanciamento dei micronutrienti permette di ridurre il livello di farina di pesce nel mangime senza effetti negativi.

Passando al punto di vista dell’altra parte della catena produttiva: per il consumatore ci sono differenze tra il pesce allevato e quello pescato? O i livelli di qualità proteica, e nutritiva complessiva, sono gli stessi?
Se confrontati con i pesci di cattura, le specie allevate generalmente presentano come differenza principale percentuali inferiori di acidi grassi polinsaturi della serie omega-3, soprattutto di Epa e Dha, e superiori di acidi grassi omega-6 (Alimenti di origine animale e salute, a cura di Mele e Pulina, FrancoAngeli 2016). Tale differenza deriva dal fatto che gli acidi grassi a lunga catena della serie omega-3 (i cosiddetti Pufa omega-3) sono caratteristici della catena trofica acquatica, mentre come abbiamo detto, i mangimi composti integrati utilizzati in acquacoltura contengono anche materie prime di origine vegetale, più ricche di acidi grassi della serie omega-6. Queste differenze vengono però abbondantemente bilanciate dal fatto che i pesci allevati della medesima specie sono tendenzialmente più grassi, per cui garantiscono un maggiore apporto quantitativo di Pufa omega-3 (Alimenti di origine animale e salute, a cura di Mele e Pulina, FrancoAngeli 2016). Va inoltre considerato che, anche in termini di rapporto omega-6/omega-3, il pesce alimentato anche con mangimi contenenti materie prime di origine vegetale, porta un contributo significativo all’abbassamento di tale rapporto. Recenti dati di letteratura indicano che il valore tipico di questo rapporto nella dieta occidentale di aggira intorno a 15, mentre un valore di 4 comporta una riduzione del 70% nella mortalità da patologie del sistema cardiovascolare. Un pesce allevato può avere un rapporto omega-6/omega-3 anche intorno a 2, contro valori spesso inferiori a 1 nei pesci pescati. Appare, quindi, evidente che il pesce di acquacoltura contribuisce significativamente all’abbassamento del rapporto omega-6/omega-3 della dieta, in virtù specialmente della sua maggiore accessibilità ed economicità rispetto al pesce pescato. In altre parole, se l’obiettivo è diminuire significativamente il rapporto omega-6/omega-3 complessivo della dieta, meglio puntare su un prodotto più accessibile a tutti che già presenta un valore di questo indice di gran lunga inferiore a quello che caratterizza la nostra dieta, che perseguire nel pesce allevato un ulteriore ma limitato abbassamento dell’indice, così da raggiungere valori analoghi a quelli del pescato. Questo abbassamento comporterebbe, infatti, aumenti di costi tali da rendere il prodotto meno accessibile, in termini quantitativi ed economici, per il consumatore.

Quali sono i punti di forza dell’acquacoltura italiana? E quelli di debolezza?
I punti di forza dell’acquacoltura italiana sono certamente il legame con il territorio e l’attenzione alla qualità, oltre alla vicinanza al mercato che, nel caso di un prodotto deperibile come il pesce, è garanzia di freschezza. I prodotti dell’acquacoltura nazionale sono sani e sicuri, controllati e tracciati. Curiosamente i consumatori hanno a volte la percezione di una maggiore qualità e sicurezza del pesce pescato perché più “naturale”: del pesce pescato non sappiamo quasi nulla se non l’area di cattura, mentre il pesce allevato e seguito e controllato, a livello di requisiti dell’ambiente di allevamento e dell’alimentazione, dall’uovo alla tavola. Una bella garanzia di sicurezza alimentare che andrebbe correttamente comunicata al consumatore e valorizzata! Questa è forse una debolezza dell’acquacoltura nazionale, la difficoltà di promuovere e far apprezzare il valore del proprio prodotto.

Una curiosità alimentare: i pesci d’acquacoltura più consumati dagli italiani? Ci sono differenze con le abitudini degli altri paesi europei?
Non ho dati quantitativi aggiornati, ma le specie più allevate in Italia sono anche quelle più apprezzate dagli italiani. In particolare orate, spigole/branzini e trote, insieme a specie d’importazione come salmone e rombi. Anche i gamberi sono specie acquatiche allevate, come pure molluschi quali mitili e vongole. In anni recenti abbiamo assistito anche a significative importazioni di pesci allevati di basso costo e valore, come il pangasio e la tilapia. In generale, i Paesi mediterranei condividono la nostra passione per spigole/branzini e orate, mentre in Centro Europa trote e carpe sono nella tradizione alimentare, come pure i mitili in Belgio e Olanda. Nei Paesi scandinavi, infine, il salmone la fa da padrone.

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Nadia Comerci